Biennale di Venezia: a caccia di ILLUMInazioni!
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Biennale di Venezia: a caccia di ILLUMInazioni!

Una visita alla Biennale di arte contemporanea di Venezia dell'edizione di quest'anno, che pur con qualche novità curatoriale, convince poco. [Glenda Cinquegrana]

Christian Marclay, the Clock, 2010, single-channel video, duration 24 hours, Courtesy White Cube, London
Christian Marclay, the Clock, 2010, single-channel video, duration 24 hours, Courtesy White Cube, London
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Glenda Cinquegrana Modifica articolo

1 Ottobre 2011 - 09.41


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Ogni due anni a giugno, puntuale come un orologio, per gli amanti dell’arte contemporanea su scala globale, non è possibile non farsi travolgere dal fascino di un appuntamento fondamentale: quello della Biennale d’Arte di Venezia, quest’anno affidata alle cure di Bice Curiger, curatrice della Kusthaus di Zurigo e co-fondatrice della rivista Parkett. Quest’anno fra le 89 nazioni presenti, le esposizioni collaterali sparse nei più suggestivi edifici storici della laguna – da Cà Corner a Palazzo Grassi, dal museo Correr a San Giorgio Maggiore – e le feste mondane da hangover, è difficile tornare a casa dai giorni dell’inaugurazione con un’opinione definita sulla mostra. Per tutti gli esausti dalle fatiche dallo strolling-and-see delle rassegne internazionali, ma desiderosi di suggestioni da raccontare, siamo andati per voi a caccia delle migliori illuminazioni artistiche.

Prendiamo le mosse dalla mostra principale, alloggiata al Palazzo delle Esposizioni ai Giardini. L’edizione della Biennale di quest’anno si intitola ILLUMInazioni: il titolo della mostra allude alla luce quale elemento costitutivo dell’arte, che trova la sua chiave di lettura nelle opere del Tintoretto che, strappate alle sedi naturali rappresentate della Chiesa di San Giorgio Maggiore e dalla galleria dell’Accademia, trovano alloggio nella prima sala. Per quelle tele di enorme potenza visiva, l’effetto che scaturisce dall’accostamento con il contemporaneo – rappresentato dall’installazione di lucette di Philippe Parreno e dai piccioni in tassidermia di Maurizio Cattelan, ironiche e al tempo stesso minacciose presenze – è di reciproco impoverimento di significato. La mostra del padiglione principale prosegue dipanando il suo filo conduttore senza picchi particolarmente brillanti; fra le opere interessanti vale la pena di soffermarsi sulle tele di Sigmar Polke (in particolare quella dal titolo Polizeischwein, già esposta alla Biennale del 1986), e sui lavori dei sempre efficaci Fischli e Weiss. In una selezione che mescola maestri a giovani – il compianto Luigi Ghirri e Cyprien Gaillard, classe 1980, Monica Sosnowska e l’africano David Goldblatt – sono questi ultimi ad uscirne perdenti.

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Nelle Corderie dell’Arsenale troviamo qualche sprazzo di luce: il parapadiglione di Franz West, ossia un’installazione dell’artista che ricostruisce la sua cucina di Vienna, nella quale albergano le opere della sua collezione personale. Il lavoro è caratterizzato da uno sperimentale spirito di contaminazione fra i media, dall’installazione, all’oggetto-scultura, al quadro, al video. All’interno di questo separè installativo, è volutamente stridente l’accostamento con la fotografia depurata di Dayanita Singh, della serie Dream Villa. Proseguendo lungo le Corderie ci imbattiamo poi nel buon lavoro di Gerard Byrne, artista inglese già visto in Italia a Castello di Rivoli, con un opera elegante, Case study: Loch Ness (Some possibilities and problems). Di fronte al neominimale Ryan Gander, è piacevole trovare una buona prova dell’italo-berliense Elisabetta Benassi.

Dopo una teoria di opere poco significative – ci colpisce il tocco di autocritica in chiave concettuale rappresentata dal brutto divano di Rosemarie Trockel intitolato Replace me – sul finire dell’Arsenale, ci troviamo di fronte all’unica vera illuminazione di tutta la kermesse, ovvero l’opera video di Christian Marclay. L’artista riesce a realizzare la perfetta coincidenza fra tempo reale e quello dell’opera, attraverso un ben costruito collage di spezzoni di film, ready-made visivi della storia della cinematografia mondiale. Un lavoro che, nella complessità della sua struttura, vera enciclopedia di memorie del nostro passato visivo, riesce a risolvere uno dei nodi irrisolti della video arte contemporanea da Warhol in poi. Non a caso è Leone d’Oro per il miglior lavoro presentato alla Biennale.

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Al fondo delle Corderie, la mostra trova un suo sipario conclusivo nelle opere di Urs Fischer, di cui una di queste riproduce in cera Il Ratto delle Sabine del Giambologna, di fronte al quale si colloca un ipotetico visitatore, che è il ritratto dell’artista Rudolf Stingel, amico di Fischer. La scultura, accesa nel momento dell’apertura, si consuma lentamente lungo l’arco temporale della mostra. Risultato: in qualunque momento la si osservi, l’opera è sempre diversa.

A chiudere la vostra visita, vi raccomandiamo di non trascurare i singoli padiglioni nazionali. Vi invitiamo come sempre ad scoprire le prove dell’America Latina, della Turchia, e dei paesi emergenti, dall’India all’Arabia Saudita: a prescindere da qualunque innato spirito terzomondista, la qualità dei lavori di questi padiglioni è buona, e può riservare qualche sorpresa. Al contrario trascurabile può essere la visita al Padiglione Italia, la cui matrice scandalistico-promozionale ha finito per inficiare qualunque scoperta sull’arte esclusa dalle consorterie curatoriali. Causa la destabilizzante accumulazione verticale di opere, solo un occhio particolarmente acuto riesce a scorgere la buona prova di Davide Coltro, e, nella più ordinata sezione fotografica di Italo Zannier, il buon lavoro di Gianluigi Colin. Se poi anche nei padiglioni nazionali non troverete illuminazione alcuna, vi consiglio di prendere in considerazione la performance dei Gelitin: intesa come riflessione ironica e corrosiva anti-snobistica sulla crisi delle biennali quali contenitori selettivi dell’arte è forse la vera chiave di lettura dell’intera kermesse veneziana!

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