Schoenberg, becchino frettoloso
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Schoenberg, becchino frettoloso

Spettri di ieri sull'odierna musica del futuro: quelli che l'avanguardia. [Federico Biscione]

Schoenberg, becchino frettoloso
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Federico Biscione Modifica articolo

31 Gennaio 2012 - 14.11


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Riferendosi alla musica di tradizione colta, bisogna ammettere che la creatività contemporanea è ben lungi dall’incanalarsi in strade chiare, univoche e universalmente accettate: lo spettro delle possibilità è molto ampio, e va da scelte linguistiche di un “neotonalismo” abbastanza superficiale a un avanguardismo sin troppo elitista.

I problemi sono molteplici e influenzano profondamente il “prodotto finale”: essi vanno dalla scelta di linguaggio alla sostanza di ciò che si vuole comunicare.

Il secondo di questi problemi è argomento troppo personale per una trattazione oggettiva, mentre per il primo di questi due, forse, è il caso di chiedersi cosa sia realmente più attuale: personalmente sono certo che le tecniche e i linguaggi tipici di molta avanguardia abbiano già da tempo mostrato la corda, a dispetto del fatto che in quasi tutti i libri del mondo autori come Stockhausen e Boulez vengano presentati più o meno come i compositori più grandi della nostra epoca (cosa secondo me molto lontana dal vero: in fondo, come moltissimi altri, hanno fatto di tutto per perdersi nei vari possibili tecnicismi strutturali che li portassero alla scoperta del più nuovo e inusitato ritrovato della grammatica musicale).

Parimenti il minimalismo americano, ma anche l’ipersemplicismo, poniamo, di un Arvo Pärt (esperienze però, queste due, non sterili e a volte anche affascinanti) hanno a loro volta la pecca di porsi come una reazione agli stilemi dell’avanguardia: si è trattato, in fin dei conti, di gettarsi in altri vicoli ciechi rispetto all’avanguardia, solo dalla parte opposta (ma sempre di vicoli ciechi si tratta: ve lo figurate voi cosa potrebbe essere una seconda generazione, ad esempio, di minimalisti? E quale sviluppo può prefigurare la grammatica e la sintassi di un Pärt?).

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Bene, questo significa che tutti hanno implicitamente accettato il concetto secondo il quale la tonalità sarebbe morta, secondo un Requiem intonato da Schönberg.

Bhè, costui si sbagliava: la tonalità non è mai morta (e da questo punto di vista la definizione di neotonale applicata a certa musica di oggi non ha alcun senso): i più grandi del ‘900, quelli veri, hanno tutti continuato a usare una grammatica che non poteva che essere di derivazione tonale: Bartók, Stravinsky, ?ostakovič, Prokof’ev, Britten, Poulenc: tutti hanno usato tecniche che hanno il pregio di non oscurare il senso generale della forma, mantenendo chiara e rettilinea la direzionalità del discorso, sostenuti da un’urgenza espressiva che non si ripiega nell’afasia espressionista, ma svela senza reticenze sia i propri turbamenti che le nevrosi, e talvolta anche le estasi (già: il godimento musicale era stato bandito da Adorno, che lo aveva sostanzialmente bollato come proprietà deteriore, da riferirsi soprattutto agli aspetti più biecamente borghesi della musica di derivazione romantica).

Guardacaso gli autori appena citati sono gli unici, insieme ad altri come loro, stabilmente in repertorio nelle sale da concerto (è forse per questo che hanno pure provato a convincerci che le sale da concerto farebbero ormai parte di una pratica obsoleta e antistorica, e ad essa sarebbero da preferire, ad esempio, le fabbriche…).

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E invece, eccola qua, la via maestra: è quella segnata da quelli che non si sono incaponiti a cercare la novità a tutti i costi ma piuttosto la propria personale autenticità, quelli che non hanno ceduto a un diffuso diktat culturale ma sono rimasti fedeli alle ragioni per le quali, da bambini, erano voluti diventare musicisti (ve lo figurate voi uno che sogna di diventare musicista perché ha ascoltato le composizioni di Xenakis?), quelli che hanno capito che era più importante tentare di far musica buona per le generazioni a venire, costi quel che costi, piuttosto che occupare militarmente il campo di battaglia culturale per venir celebrati come i più grandi (pur essendo lettera morta nelle sale da concerto), quelli che hanno aperto la strada ai compositori del futuro, non quelli che chiudono una ricerca, una sperimentazione, con la doverosa constatazione che in quella direzione non si arriva da nessuna parte (si sono voluti adottare per la musica gli stessi parametri della scienza, e proiettarla così nel campo della sperimentazione: ma la musica non è matematica, e mentre in questa anche gli esperimenti non riusciti possono essere un progresso, nella musica, regno dell’estetica, ciò evidentemente non accade).

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Infine una constatazione: nella musica degli autori inclusi in quella via da me detta “maestra”, tecnicamente parlando, si possano ancora ravvisare, oltre a polarità tonali più o meno chiaramente espresse, melodia, armonia e ritmo, in una costruzione, beninteso, che mostri chiaramente la relazione anche dialettica che lega questi elementi, e non li giustappone come entità impermeabili, sorde le une alle altre. Non mi sembrano cose di poco conto.

Invece, parlando di contenuti, sono musiche dove si manifesta una tangibile urgenza espressiva, dove non si avverte il sapore stantìo di tecniche abusate, dove si rivela chiaramente una maestria compositiva, anche come pregnanza nell’uso degli strumenti (e delle voci!), dove si avverte un senso di coerenza della forma (in modo che il pezzo non sembri troppo lungo, o troppo corto, o formalmente indefinibile), musiche che si lasciano godere senza essere pedantemente neoqualcosa, che non sono noiose ma presentano un’azione incalzante, musiche che si mostrano al passo coi tempi e non intellettualisticamente protese a una sterile iconoclastia verso il passato: le sole qualità, forse, che possono garantire un futuro, sia nel senso di permanenza nella pratica dell’esecuzione e dell’ascolto, sia nella possibilità di sviluppo che offrono alle nuove generazioni di compositori.

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