La democrazia senza memoria è destinata a Berlusconi
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La democrazia senza memoria è destinata a Berlusconi

Ustica e non solo. Certi muri non cadono. Per il fatto che alcune conoscenze sono servite a costruire poteri e a togliere sovranità ai cittadini. [Antonio Cipriani]

La democrazia senza memoria è destinata a Berlusconi
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Antonio Cipriani Modifica articolo

27 Giugno 2013 - 11.08


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di Antonio Cipriani

Ustica, 33 anni fa dopo. Il presidente della Repubblica dice: vanno cercati i colpevoli, anche accertando responsabilità estere. Era il 27 giugno del 1980 quando fu abbattuto l’aereo dell’Itavia che da Bologna andava a Palermo con 81 persone a bordo, tutte morte. Presidente del Consiglio era Francesco Cossiga, che era a Palazzo Chigi anche qualche mese dopo, in occasione di un’altra strage senza risposte, quella di Bologna, 2 agosto del 1980: 85 morti, 200 feriti.

Erano anni di piombo, anni di stragismo. Anni in cui è accaduto qualcosa che ancora oggi ignoriamo. Vanno cercati i colpevoli, già. E per Bologna si dirà: togliere il segreto di Stato sui fenomeni di stragismo e terrorismo, già. Nel frattempo è caduto il Muro di Berlino, il Pci e la Dc non ci sono più. La prima repubblica è stata archiviata per via giudiziaria con Tangentopoli, quella che sembrava ai cittadini una rivoluzione civile per mano dei magistrati è stata l’archiviazione di una fase storica di battaglie civili vere e di conquiste democratiche. Alla fine del tunnel è apparso Berlusconi, e questo basta per dare alla storia una chiave di lettura.

Così oggi, in questa data particolare, voglio riproporre un testo di quasi due anni fa. Per dire che certi muri non cadono, non hanno crepe. E certe storie affondano le radici in una memoria storica labile, che non si può condividere per il fatto stesso che alcuni possiedono le conoscenze e altri no. Per il fatto che alcune conoscenze sono servite a costruire poteri e a togliere sovranità ai cittadini. E che la seconda repubblica è nata sul buco nero di questa memoria senza verità.


Tanti anni fa, ero ancora inviato all’Unità, andai a Padova a intervistare Giovanni Tamburino. Mi ricordo che dovetti insistere molto per far passare quell’intervista a un magistrato che all’epoca era nell’ombra. Credo fosse dopo la strategia mafiosa-stragista del 1992-93, cesura storico-politica con ricadute informative nella nostra fragile e martoriata democrazia. L’Italia stava mutando pelle: se Tangentopoli aveva spazzato via il sistema partitico della Prima Repubblica, le bombe (o più semplicemente la strategia della tensione) mettevano i paletti per il percorso futuro, stabilivano le regole e i patti della cosiddetta Seconda Repubblica.

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Dal dopoguerra a Piazza Fontana, dall’Italicus al caso Moro, passando per Ustica e Bologna, la nostra giovane democrazia era stata assediata puntualmente da ogni fenomeno eversivo che la sociologia può studiare: stragismo, terrorismo rosso e nero, golpismo, mafie. Nessun altro paese occidentale può vantare (per così dire) una scia di sangue così lunga e variegata nella sua storia recente. L’Italia a sovranità limitata sì. Con un particolare non trascurabile: per la maggior parte dei casi eversivi non sappiamo neanche chi siano gli autori. Mai, in nessun caso, sono stati scoperti i mandanti.

Questo inciso per dire che, quando la mafia ha ammazzato Salvo Lima, e poi Falcone e Borsellino nel 1992, e quando sono partite le bombe del 1993 (in via dei Georgofili a Firenze, in via Palestro a Milano, a San Giovanni e a San Giorgio al Velabro a Roma), gli anticorpi culturali e politici per comprendere che cosa stesse accadendo c’erano tutti. Già, ma evidentemente non serviva a nessuno capire bene che cosa volessero dire quelle azioni.

E la stampa, ovviamente, da buon cane da compagnia del potere, non poteva che guardare senza mettere in questione il passato con le evidenze del presente. Lasciando ai posteri dei commenti e delle analisi davvero spettacolari per pochezza e per conformismo. Ricordo un titolo che all’epoca mi fece ruggire per la caparbia e saccente sicumera con la quale il brillante e noto editorialista spiegava ai lettori che le bombe volevano fermare il “nuovo che avanza”. Capito? “Il nuovo che avanza”, scriveva in coro un analista del piffero che ancora oggi spiega con i suoi editoriali come essere banali, videogenici e sempre a galla.

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Il nuovo che avanza, ce lo ha spiegato la storia, non era nuovo per niente e non temeva certo le bombe. Il fragore e l’allarme di quelle azioni servivano per assestare quel nuovo che avrebbe garantito in nome del vecchio che tramontava nelle forme esteriori. Fate due passi indietro e osservate la storia degli ultimi vent’anni e vedrete quale percorso è stato fatto. Perché la storia, ce lo insegnavano a scuola, si fa studiando a fondo ciò che precede un fatto, ma soprattutto analizzando nel tempo successivo le conseguenze di quel fatto.

Torno a Tamburino. Per dire che oggi è capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, quando andai a intervistarlo era quasi nel dimenticatoio, ma nel 1974 con la sua inchiesta sulla Rosa dei Venti aveva fatto emergere le motivazioni della strategia della tensione. Aveva colpito al cuore il sistema che regolava interessi non propriamente nazionali con operazioni occulte. Per esempio, arrestò Vito Miceli, allora capo del Sid. Poi la Cassazione portò via l’inchiesta a quel giovane e spavaldo magistrato, la portò a Roma dove finì nei fumi del Porto delle Nebbia, con tanto di segreto di Stato invocato da Claudio Vitalone.

Parlammo per due ore, a casa sua a Padova. Io non ero un giornalista da microfono messo davanti alla bocca di un potente, non ho mai amato il mestiere del riportino: ero ben preparato su questi temi (avevo da poco pubblicato Sovranità limitata, scritto con mio fratello Gianni). Tra le tante cose, rispose a una mia domanda sulla strategia della tensione con una frase che oggi, con le dichiarazioni di Pietro Grasso, assume un significato importante: “Quando un meccanismo funziona non si cambia. E siccome la strategia della tensione ha perfettamente funzionato per ottenere i risultati che si proponeva, perché mai avrebbero dovuto accantonare quelle modalità?”

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Fu una delle ultime cose serie che riuscii a scrivere sull’Unità. Era controcorrente, l’analisi di Tamburino cozzava con la linea unitaria che i media nazionali avevano dato alla congiuntura storico-politica. Io tenni con fermezza questa impostazione, rifiutandomi di virarla sulla logica delle dichiarazioni “in appoggio” che tanto andava di moda e che – dopo tanti anni è facile notarlo – ha messo in discesa un sacco di carriere giornalistiche.

Meglio così, dico oggi. E quando leggo della trattativa Stato-mafia negata e super-negata per anni, della strategia della tensione sepolta per decenni sotto la patina della superficialità politica e informativa, sogghigno. L’elenco sarebbe lungo, i racconti piacevoli. Per ora mi fermo qui. Ma sta arrivando il tempo del narrare.


Così concludevo il pezzo di quasi due anni fa. Il tempo del narrare, di non fermarsi davanti al conformismo delle interpretazioni, è lungo e difficile. Noi su Globalist proviamo a farlo. Per capire dove è nato e perché è stato realizzato questo deserto culturale, questa plastificazione della società: il gioco retorico delle analisi di parte, di comodo, delle dimenticanze strategiche. Dell’abbandono, col sorriso e il tradimento, dei valori, della partecipazione dei cittadini a una democrazia che poteva realizzarsi, che aveva una possibilità di compiersi. Per questo, ricordo le parole di Tamburino e rifletto sul valore dei beni comuni, della ripresa di una battaglia culturale per riprendersi spazi politici di partecipazione e discussione. Un primo passo, per riacquistare dignità civile e riprendere a tessere il filo della memoria e dell’identità di un luogo civile.

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