Storia di Lilia, raccontata ai suoi figli
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Storia di Lilia, raccontata ai suoi figli

Nel suo paese, la Moldavia, Lilia Bicec faceva la giornalista. In Italia la badante, per trovare i soldi per ricongiungersi ai suoi figli. [Francesca Caminoli]

Lilia Bicec
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11 Gennaio 2014 - 15.38


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Chiunque abbia una badante che si occupa di genitori e nonni o una baby sitter straniera che cura i bambini, ma anche chiunque pensi che “queste qua” (e “questi qua”) vengono a portarci via il lavoro e le case, chiunque sia convinto che spesso, “furbe loro”, vogliano entrare nelle nostre case solo per rubare soldi e gioielli o, non sia mai, sposare il vecchio rimbambito e fregare l’eredità ai legittimi eredi, vale a dire buona parte degli italiani quindi, dovrebbero leggere “Miei cari figli vi scrivo” di Lilia Bicec.

Nel suo paese, la Moldavia, Lilia Bicec faceva la giornalista. Ma il basso stipendio, due figli piccoli da mantenere, un marito senza lavoro e violento la obbligano a cercare altrove i mezzi per poter mandare avanti la famiglia e, soprattutto, per dare ai figli bambini una vita più dignitosa. Emigra in Italia, con un solo pensiero sempre in testa: riuscire a trovare un lavoro e ricongiungersi con gli adorati figli, Cristina e Stasi. Per cercare di curare in qualche modo il suo dor, parola che non ha equivalente in italiano “forse esiste solo nella nostra lingua questa parola preziosa, e contemporaneamente dolorosa, che significa desiderio ma anche nostalgia”, Lilia, che quando lascia la Moldovia ha 35 anni, scrive ai figli lettere che non spedirà.

Nelle lettere racconta tutto: il viaggio con mezzi illegali, a piedi nel bosco, fughe, arresti al confine tra Repubblica Ceca e Germania, carcere, ancora fughe, con la paura che non ti si stacca di dosso. E finalmente l’arrivo in Italia e ancora la paura, la più fedele compagna, un letto in qualche appartamento di clandestini e poi i primi lavori ottenuti con i passaparola che tutti i migranti conoscono così bene: in casa di un vecchio che vuole che dorma con lei e lei scappa, di una anziana che la tratta come una schiava e le dà da mangiare poco più che pane e acqua e poi via via altri lavori, tanti lavori, fino a cinque al giorno, e anche incontri con persone per bene, che la aiutano.

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Lilia Bicec non si limita però, e questo è il grande merito del suo libro, oltre a quello di una scrittura pulita ed essenziale, a raccontare le difficoltà dei clandestini, come si è letto in altri libri di migranti: ai figli vuole anche trasmettere la memoria del suo paese e della sua famiglia, per non perdere, lei e loro, l’identità e le radici. E così racconta dell’occupazione russa di quella che una volta era la Bessarabia, la deportazione del nonno a Murmansk, della nonna, considerata una kulak perché aveva un piccolo negozio, in Siberia con il suo bambino, futuro padre della scrittrice.

Scrivere è la salvezza per Lilia, non solo per dialogare con i figli, anche per mantenere viva la parola, unica arma per non essere invisibile in un paese di cui, ancora, non conosceva la lingua, unico mezzo per continuare ad essere persona, madre, e anche giornalista, in una vita da clandestina che trova proprio nell’invisibilità una via di sopravvivenza. Ma se non sai la lingua del paese in cui si emigra non si esiste, allora Lilia racconta anche di come e quanto si sia messa a studiare, nel poco tempo che le rimaneva dalle molte ore di lavoro, fino a reiscriversi all’università.

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Lavoro e studio: questa, e solo questa, è stata la vita di Lilia per diversi anni. Lavoro per mandare più soldi possibile a casa (le donne emigrate mandano a casa molti più soldi degli uomini, tengono per sé il minimo indispensabile) e studio per imparare la lingua, la storia, la cultura del nostro paese e poter così tentare di essere, anche qui, una persona intera. Lo diventerà completamente solo quando, dopo cinque anni di questa vita sospesa, riesce a far venire i suoi figli in Italia. “Con voi mi sento più giovane”, scrive, “e sono tornata a dare un senso alla mia vita”.

E qui il bel libro di Lilia Bicec avrebbe potuto finire.

Un lieto fine, nonostante, dopo l’arrivo dei figli, siano “tornate le nuvole a scurire le mie giornate”: un tumore al seno, l’operazione, ma ci sono Cristina e Stasi al suo fianco e Luciano, un italiano a cui Lilia vuole bene.
C’è invece un post scriptum. “Pensavo che il male fosse finito.” dice Lilia, “Ma non è andata così”. Il figlio Stasi muore in un incidente stradale. Lilia lo saluta con una frase che trafigge: “…bacio e accarezzo le sue mani graffiate e fredde. E poi le mie lacrime colmano gli angoli dei suoi occhi chiusi, e lì esitano un po’, prima di cadere: – Non piangere, bambino mio, – dico a bassa voce. – Lo so che ti dispiace lasciarci”.

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Lilia Bicec forse pensa che “Miei cari figli vi scrivo” sia una sua testimonianza intima e personale. Non è così: con questo libro ha dato voce e dignità a tutte le donne emigrate che lavorano nel nostro paese e nelle nostre case, alle loro storie tutte così diverse e tutte così tremendamente uguali. E ha dato voce anche, con poche ma esatte parole, alla perdita più indicibile che possa accomunare tutte le donne, immigrate e non.

Lilia Bicec, Miei cari figli vi scrivo, Einaudi Torino 2013,180 pagine, 16.00 euro.
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