di Giampiero Minasi
«… la posizione dei cattolici è in antitesi stridente con la nostra. Aspettano la redenzione dalla grazia, essi, invocano la buona volontà dei santi, quando sarebbe più opportuno fare appello a quella degli uomini… Noi non aspettiamo nulla da altri che da noi stessi: la nostra coscienza di uomini liberi ci impone un dovere, e la nostra forza organizzativa lo attua. Solo ciò che è opera, conquista nostra, ha valore per noi. Non è quindi solo per la ripugnanza del rito, per l’esteriorità, per il simbolismo ormai vuoto di ogni contenuto di fede che, a malgrado gli sforzi dialettici di qualche abile casuista, ci tiene lontani dal cattolicesimo. È l’antitesi insanabile delle idee… »(articolo del 21 giugno 1916). Così scriveva Antonio Gramsci, autore di una ricerca sulla religione che ha poco o nessun riscontro nel panorama marxista per originalità, ampiezza quantitativa e temporale (centinaia di pagine in oltre 20 anni) e coerenza di impostazione: un filo rosso che dalle intuizioni degli scritti giovanili si snoda in sostanziale continuità e acquista lo spessore teorico dei Quaderni, cosicché le parole del 1916 avrebbero potuto benissimo essere riproposte nel 1937. Alla ricerca lo aveva spinto una esigenza intima al nucleo del suo pensiero. Se la rivoluzione in Italia richiedeva che si conquistasse prima l’egemonia culturale, non si poteva evitare di confrontarsi con quel gigantesco intellettuale collettivo che l’aveva fino ad allora detenuta: la Chiesa cattolica.
Ateo, ma lontano anni luce dal volgare anticlericalismo di tanto socialismo, Gramsci indaga il fatto religioso in tutte le sue variegate forme, che possono essere ricondotte a 3 questioni connesse, ma distinte: la questione religiosa, la cattolica, la vaticana. La questione della religione. Ad essa Gramsci concede tutto quello che è possibile riconoscere, tenendo però ben fermo che la religione è al fondo un atto di deresponsabilizzazione e con la particolarità che ogni momento di massimo avvicinamento si converte immediatamente in un’ accentuata presa di distanza. Accenna alle sue motivazioni psicologiche: «… sentite all’improvviso il senso di qualcosa che vi manca, sentite dei bisogni vaghi e difficilmente determinabili, quei bisogni che Schopenhauer chiamava metafisici,…Siete nel mondo ma non sapete perché…sentite dei vuoti e desiderereste delle giustificazioni al vostro essere…e vi pare che le ragioni umane non vi bastino, che risalendo di causa in causa arriviate ad un punto che … ha bisogno di una ragione suprema, fuori del conosciuto e del conoscibile per essere spiegata». Ma, continua, «se qualcosa è ancora inesplicabile ciò è dovuto solo alla nostra incompletezza conoscitiva…e ciò può renderci più umili… essa «è un bisogno dello spirito», lo è per l’«uomo grosso» incapace di sostituirla (art. del 4 marzo 1916) e Gramsci è comunque fermamente persuaso che questo bisogno abbia natura storica e che la risposta religiosa sia un’alienazione, un oppio.
Indaga nella storia, individuando nel cristianesimo primitivo un fatto rivoluzionario ed egualitario, l’unica ideologia possibile per le classi subalterne e i popoli oppressi da Roma. Questo movimento cristiano genuino e popolare aveva poi esercitato una costante pressione dal basso che, contrastata dalla gerarchia ecclesiastica, aveva alimentato i movimenti ereticali del Medioevo. Ma il suo valore progressista si era potuto manifestare solo con i tre momenti di rottura della compagine religiosa (Riforma luterana, calvinismo, Rivoluzione francese), che si erano poi tradotti in tre tappe decisive del progresso del pensiero umano: rispettivamente Hegel e l’hegelismo, Ricardo e l’economia classica inglese, l’illuminismo francese. Afferma che la religione permea così a fondo, tanto da divenirne parte in un insieme più ampio, il senso comune: quella ingenua concezione popolare del mondo che ha pure aspetti positivi (un nucleo sano di buon senso; la contrapposizione alla cultura ufficiale), ma che nell’essere vissuta come dato oggettivo induce nelle masse fatalismo e passività. Quanto alla questione cattolica, essa si incentra su due punti: il ruolo della Chiesa come intellettuale collettivo; il Partito popolare e i movimenti cattolici.
Alla Chiesa Gramsci guarda con occhi particolarmente attenti, dal momento che essa si è confrontata con problemi che interrogano drammaticamente il partito rivoluzionario, che sarà vittorioso solo se sarà in grado di costituire il blocco storico di operai-contadini-intellettuali. Più di tutti la Chiesa è stata capace di costituirsi come ideologia sociale che ha cementato un blocco di forze che è anche un blocco culturale teso a superare le disomogeneità e i dislivelli culturali presenti al suo interno. In più, si è cimentata col problema di impedire che gli intellettuali si staccassero dagli strati inferiori, formando due religioni, ma lo ha fatto, nella Controriforma, accentuando il suo momento disciplinare: gli intellettuali non dovevano oltrepassare certi limiti nella distinzione così da mantenere un’unità esteriore coi semplici lasciati nella loro filosofia primitiva del senso comune. Da questo punto di vista, essa non è un modello, piuttosto un contromodello, perché invece la filosofia della prassi vuole innalzare i semplici a una concezione superiore della vita, per un progresso intellettuale di massa.
Quanto ai movimenti cattolici, Gramsci appare interessatissimo alla nascita del PPI, non certo in funzione di un’alleanza, meno che mai di un incontro sul piano ideologico, ma perché pensa che da essa possa trarre giovamento il socialismo. «Il fatto più grande della storia italiana dopo il Risorgimento», definisce il costituirsi dei cattolici in partito politico, ma perché vi vede il sintomo che in Italia «il mito religioso…si dissolve… si laicizza, rinunzia alla sua universalità per diventare volontà pratica di un particolare ceto borghese» (art. 22 dicembre 1918). Poco dopo, preciserà che esso è «una fase necessaria del processo di sviluppo del proletariato italiano verso il comunismo» poiché, rispetto alle masse contadine «il cattolicesimo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida…I popolari stanno ai socialisti come Kerenskj a Lenin» (art. 1 novembre 1919). In buona sostanza, quello che Gramsci vede in atto è un gigantesco processo di allontanamento del popolo italiano dal dominio religioso, una vera e propria apostasia delle masse, cui la Chiesa, d’intesa col fascismo, si oppone non tanto col PPI (di cui ha scarsa fiducia), quanto mediante l’Azione cattolica, cui affida il compito di ripristinare negli strati popolari la concezione religiosa del mondo.
Per ultimo, la questione vaticana. Essa appare a Gramsci definitivamente risolvibile unicamente sul piano internazionale: solo nella società comunista internazionale, tutte le chiese avranno la vera libertà, che il comunismo non intende affatto soffocare. Ciò non vuole affatto dire che, nel frattempo, si debba stabilire un rapporto di vertice con la gerarchia, assolutamente smentito dalla sua posizione sul Concordato, che gli appare intriso di teocrazia medievale: «Il Concordato non è un comune trattato internazionale: nel concordato si realizza di fatto una interferenza di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo degli stati contrattanti…. I concordati intaccano in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello stato moderno. Lo Stato ottiene una contropartita?…ottiene che la chiesa non intralci l’esercizio del potere, ma anzi lo favorisca e lo sostenga, così come una stampella sostiene un invalido» (Quaderni, p. 1866).
La disamina a tutto tondo condotta da Gramsci sui vari aspetti del fatto religioso trova infine il suo punto di sintesi in un classico movimento dialettico per cui tutto ciò che di positivo possono avere avuto le ideologie passate e precedenti – la religione quindi, ma anche la filosofia classica – viene sussunto e superato dal socialismo, la vera e definitiva «riforma morale e intellettuale» che l’Italia non ha mai avuto. Senza nessuna commistione di pensiero che impedisca la radicale separazione dal passato: «La nostra religione torna ad essere la storia, la nostra fede torna ad essere l’uomo e la sua volontà e attività…. E così è che ci sentiamo inevitabilmente in antitesi col cattolicesimo e ci diciamo moderni. Perché il passato noi lo sentiamo bensì vivificare la nostra lotta, ma domato, servo e non padrone, illuminatore e non aduggiatore» (art. 29 agosto 1916). Lo storicismo assoluto si fa umanesimo assoluto, radicalmente immanentista e anti trascendente. La filosofia della prassi è «terrestrità assoluta del pensiero» (Q. p.1437) che afferma la sua egemonia senza violenza: «I socialisti marxisti non sono religiosi … ma pur non essendo religiosi, non sono neppure antireligiosi; lo stato operaio non perseguiterà la religione… domanderà ai proletari cristiani la lealtà che ogni stato domanda ai suoi cittadini» (Sotto la Mole, p. 495).
Il quadro delineato è certamente sintetico, ma non lascia comunque adito a dubbi circa la radicale alterità di Gramsci rispetto al cattolicesimo. Eppure non mancò chi affermasse che nel suo pensiero (e nel marxismo) permanesse ancora un nucleo di religiosità. Inaspettatamente, la critica proveniva da chi a Gramsci aveva guardato con enorme interesse, traendone spunti per la propria ricerca: Ernesto De Martino. Il limite del marxismo, afferma il grande etnologo, è tutto nella centralità data alla produzione materiale, che conduce a due negative e decisive conseguenze. Da un lato non si realizza una vera separazione dalla religione, perché se ne dà una lettura parziale e semplicistica. Il marxismo afferma infatti che sia l’alienazione economica l’origine di quella religiosa. Per De Martino vi è invece, più originaria, un’alienazione radicale connessa alla perdita di senso di sé e del mondo rispetto alla quale la religione si pone come alienazione derivata. Non solo: essa si connota, inoltre, per essere non esclusivamente alienazione, ma anche tecnica di reintegro, storicamente necessitata, di una presenza esposta al rischio di non esserci più nel mondo. Dall’altro, si realizza un’antropologia semplificata, per cui l’attività essenziale dell’uomo è ridotta ad attività economica. Nella concezione marxiana, è l’homo faber che conferisce valore al mondo con la sua produzione materiale ed è lui che muove la storia con la sua lotta per la liberazione delle forze produttive dai rapporti di produzione. Emancipazione economica e liberazione umana vengono così a coincidere. De Martino pone invece a fondamento del divenire storico dell’uomo l’ethos trascendentale, cioè la spinta (che sarebbe l’essenza fondamentale dell’uomo) ad andare sempre oltre la realtà data (a trascendere, appunto) per conferire sempre nuovo valore al mondo.
L’attività valorizzatrice dell’uomo – sosteneva De Martino – si inaugura con la produzione materiale della vita, ma non si esaurisce in questa e alimenta tutta una serie di altre valorizzazioni non riducibili all’utilizzabile. Presi dalla polemica contro l’ astrazione dello Spirito idealistico, né Gramsci né il giovane Marx riconoscono che il «movimento dialettico oltre la natura nell’economico e oltre l’economico nelle altre valorizzazioni» ha in sé una potenza che lo rende possibile, un principio interno: l’ethos trascendentale del trascendimento. Questo mancato riconoscimento conduce ad una prassi cieca ed «.. è responsabile in Gramsci, di alcune ombre mitologizzanti che ancora gravano sul suo marxismo riformato: quando Gramsci parla di un processo di unificazione del genere umano che mette capo alla «sparizione della contraddizioni interne che dilaniano la società», o di una «lotta per l’oggettività» come punto di arrivo raggiunto il quale si potrà riparlare di Spirito, rispunta il tema – di derivazione religiosa, teologica, idealistico-hegeliana – di un processo a termine, e della esauribilità storica della lotta per l’oggettività…». In altri termini, la religiosità del marxismo è insita nella sua premessa antropologica. Se la storia dell’uomo è lotta per la liberazione economica, nella società socialista senza classi e senza sfruttamento, «tutte le possibili contraddizioni sociali saranno soppresse una volta per sempre… non se ne genereranno di nuove mai esperite nella storia umana… non si dovrà prendere coscienza di esse e lottare per la loro soppressione». La storia avrebbe avuto una sua fine: «La natura sarà interamente “asservita” all’uomo e lo “spirito” sarà liberato una volta per sempre» (La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, pp. 440/41). Un mito religioso di redenzione totale.
In verità, non mancano sia in Marx sia in Gramsci elementi di cautela rispetto a derive millenaristiche. Il primo aveva sì adombrato la società comunista come il regno della libertà nel quale è «possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico» (L’ideologia tedesca), ma era stato un accenno rimasto privo di ulteriori approfondimenti. Quanto a Gramsci, egli si era posto il problema se nel regno della libertà, con le contraddizioni, sarebbe sparita anche la filosofia della prassi. Poteva diventare caduca e potevano diventare verità alcuni aspetti delle concezioni idealistiche, addirittura si sarebbe potuto riparlare di Spirito (Q. pp. 1487/1490). In nessun caso si potevano mettere ipoteche sul futuro: «Noi ci distinguiamo dagli altri uomini perché concepiamo la vita come sempre rivoluzionaria, e pertanto domani non dichiareremo definitivo un nostro mondo realizzato, ma lasceremo sempre aperta la via verso il meglio; verso armonie superiori. Non saremo mai conservatori, neanche in regime di socialismo», che è »un continuo divenire, uno sviluppo infinito» (artt. 18 agosto 1917 e 25 luglio 1918).
Tali cautele sembrano tuttavia un argine insufficiente rispetto alla direzione impressa dalla teoria: se il senso dello sviluppo umano è la liberazione delle forze produttive e la realizzazione di una società senza classi, non è affatto arbitrario dedurre che il fine della storia possa coincidere con la fine della storia. Le argomentazioni di De Martino sembrano quindi aver colto un punto debole del marxismo. Argomentazioni di cui, peraltro, c’è più di un’ eco, per esempio in Antonio Giolitti che, in ambito più strettamente politico, in quello stesso periodo, proponeva di abbandonare l’utopia rivoluzionaria (per cui c’è un fine prescritto da un’ideologia che si proclama verità scientifica) in nome dell’utopismo riformista e democratico: fiducia in una graduale e continua trasformazione della società in coerenza con i valori trascendentali (e perciò utopistici) di libertà, giustizia, solidarietà. Senonché, ogni critica è a sua volta suscettibile di essere criticata. Se l’ethos del trascendimento (e non la lotta per la soddisfazione di bisogni materiali) può essere preso a fondamento del divenire storico, quale ne è sua volta il fondamento? In altri termini, da dove l’ ethos ha origine? Analogamente rispetto a Giolitti: se la politica è opera di continua modificazione della realtà in senso progressivo, non volendoci basare su una teoria che indichi il percorso e prefissi una meta, su quali basi allora si può rifiutare il negativo? Su un’aspirazione utopistica? Per rispondere a tali domande è necessario un breve passo indietro. La parola “divenire” esercitava un fascino immenso su De Martino ed era stata la ragione non ultima del suo avvicinamento a Gramsci, alla cui autorità si era appoggiato per difendersi da Croce che vi aveva contrapposto l’altra grande parola: “Essere”. Era avvenuto nel 1948, in occasione della pubblicazione di quel capolavoro che è Il mondo magico, nel quale lo studioso individuava nel mondo storico del magismo il luogo della genesi dell’apparato categoriale della stessa coscienza occidentale. Croce lo recensì nel 1949 avanzando un’aspra critica: dimenticandosi che è lo spirito con le sue categorie eterne a creare la storia, De Martino ha ammesso l’esatto contrario, facendo dello spirito un qualcosa di creato dalla storia nel suo incessante avanzare.
Proprio dalla lettura dei Quaderni dal carcere appena pubblicati, De Martino trasse gli argomenti per rispondere alla critica di Croce: «Non si può parlare di Spirito quando la società è raggruppata, senza necessariamente concludere che si tratti di spirito di corpo.» «Ciò che gli idealisti chiamano «Spirito» non è un punto di partenza ma d’arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale, e non già un presupposto unitario» (Q. p. 1490 e 1416). Più tardi, però, nella II edizione del 1958, verificata l’intima debolezza dell’antropologia marxista e pensando probabilmente che la tesi crociana della storia come «storia della libertà» più somigliasse all’ethos del trascendimento, fu indotto ad una parziale autocritica: «Rimeditando le obiezioni del Croce…abbiamo successivamente respinto la postulazione di un modo magico come età storica impegnata a fondare la presenza nel mondo, prima e indipendentemente dal dispiegarsi delle singole categorie del fare…». Da allora, De Martino si barcamenò in un difficilissimo equilibrio tra crocianesimo e marxismo, non riuscendo a trovare la chiave per uscirne fuori. Era stato l’ennesima vittima di un conflitto, quello fra essere e divenire, che aveva percorso l’intera storia del pensiero occidentale. Era sempre apparso un conflitto insanabile e tale si era riproposto anche per i protagonisti di allora, in realtà richiedeva un salto di paradigma per il quale bisognò aspettare ancora alcuni anni.
«L’essere esiste fin dall’inizio e deve svilupparsi»[/i]. La formula sintetica di Massimo Fagioli, contenuta nella sua Teoria della nascita e castrazione umana (L’Asino d’oro ed., 2012, p.57, I ed. 1975) appare di una disarmante semplicità. La “e” che va ad unire due entità sempre contrapposte sembra la classica quadratura del cerchio. In realtà, l’uso della congiunzione è reso possibile solo in quanto è preceduto da una nuova rivoluzionaria concezione dell’essere, esposta nel suo fondamentale Istinto di morte e conoscenza (L’Asino d’oro ed., 2010, I ed. 1972). Non più entità metafisica, esterna all’uomo, eterna e immodificabile, l’essere viene ricondotto all’umano e, appartenendo ora allo stesso ambito immanente (la terrestrità assoluta che Gramsci perseguiva) del divenire, può finalmente esservi connesso. L’essere infatti è l’essere di ognuno di noi, la realtà psichica che si crea alla nascita. Non semplice parto, la nascita è la dinamica fondamentale di trasformazione per l’insorgenza della realtà non materiale umana dalla realtà biologica. Senza alcun intervento “divino”. Lo stimolo luminoso giunge sulla retina e attiva la sostanza cerebrale; prende avvio la realtà mentale umana, le cui iniziali immagini inconsce avranno nel tempo una successiva graduale integrazione col pensiero verbale, ma che sin dal primissimo istante costituiscono la dimensione interiore con cui il neonato entrerà attivamente in quel rapporto interumano da cui, prole inetta, è assolutamente dipendente. Inizia il divenire del singolo uomo, nel rapporto con gli altri esseri umani del suo tempo. Ed è un divenire che attraversa incessantemente le generazioni, configurandosi come il divenire della specie in continua perenne evoluzione. Realtà mentale inconscia, uguaglianza assoluta (della nascita), diversità di immagini e fantasia, socialità connaturata alla specie: sono i pilastri di una natura umana capace di operare un continuo rifiuto del disumano e del negativo che ad essa si oppone. Può fare un tratto di strada accompagnandosi a teorie e prassi politiche, ma, non identificandovisi, è in grado di andare oltre esse.
Non era questo il senso della ricerca marxista, nonostante gli esordi sembrassero andare in tale direzione. La «perla delle perle», così il diciannovenne Marx aveva definito la natura umana, fusione di «natura spirituale» e «natura fisica», in una lettera in cui comunicava al padre di aver scritto un dialogo per «riporta(rla) alla luce del giorno». Ma, concludeva amaramente, «questo lavoro… che mi ha fatto rompere la testa quanto ho voluto e che è scritto in una maniera così confusa (mentre doveva essere una nuova logica) che ora faccio davvero fatica ad orientarmici, questo lavoro, il mio figlio più caro, vezzeggiato al chiaro di luna, mi spinge, come una sirena ingannatrice, nella braccia del nemico». L’astrazione hegeliana. Il timore dell’inganno e la confusione di idee qui così sinceramente dichiarate, non seppero poi nel prosieguo della ricerca marxista trovare la strada di un positivo superamento e si celarono anzi sotto la veste ingannevole di un orgoglioso esplicito rifiuto a proseguire questa ricerca, fatto proprio anche dagli epigoni, anche da Gramsci, che non volle o non seppe andare oltre. Si spinse più in là di Marx, a considerare come nessun comunista aveva mai fatto l’importanza del simbolico e del culturale, ma non riuscì a superare il limite del maestro.
La domanda “che cosa è l’uomo?” afferma Gramsci, è nata nell’ambito della religione, soprattutto cattolica, ed è la domanda prima e principale della filosofia. Le risposte che esse hanno dato – gli uomini sono tutti uguali in quanto figli di Dio; la natura umana è lo Spirito – gli appaiono sostanzialmente uguali tanto da chiedersi «se nella concezione dello “spirito” non ci sia altro che il vecchio “Spirito santo” speculativizzato» (Q. p. 1250). Ma, si badi bene, ciò che le accomuna non è tanto la astrattezza e fallacia delle risposte, quanto l’assunto da cui partono: che esista un’ idea generale di uomo, un’ idea di natura umana immanente ad ogni uomo. « (…) Il problema di cos’è l’uomo è dunque sempre il così detto problema della «natura umana» o anche quello del così detto «uomo in generale», cioè la ricerca di creare una scienza dell’uomo (una filosofia), che parta da un concetto inizialmente «unitario», da un’astrazione in cui si possa contenere tutto l’»umano». Ma «l'”umano” è un punto di partenza o un punto di arrivo, come concetto e fatto unitario? O non è piuttosto questa ricerca, un residuo “teologico” e “metafisico” in quanto posto come punto di partenza (…) Neanche la “facoltà di ragionare” o lo “spirito” ha creato unità e può essere riconosciuto come fatto “unitario”, perché concetto solo formale, categorico…». Né vale una naturalistica antropologia fondata sulla biologia. (Q. p.884)
Non esiste, quindi, all’origine una natura umana comune a tutti gli individui. L’individualità ha sicuramente la massima importanza, ma per Gramsci è solo uno dei tre elementi, insieme agli altri uomini e alla natura, che definiscono l’umanità. «…a noi non interessa che cosa è ogni singolo uomo…(ma) che cosa l’uomo può diventare» (Q. p.1343). «Che la “natura umana” sia il “complesso dei rapporti sociali” è la risposta più soddisfacente perché include l’idea del divenire: l’uomo diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali e perché nega “l’uomo in generale”…Si può anche dire che la natura dell’uomo è la “storia”… se appunto si dà a storia il significato di “divenire”… perciò la “natura umana” non può ritrovarsi in nessun uomo particolare, ma in tutta la storia del genere umano» (Q. p.885). «Se si definisce l’uomo come individuo, psicologicamente e speculativamente, questi problemi del progresso e del divenire sono insolubili o rimangono di mera parola». Riemerge qui la vecchia impotenza di Marx: poiché l’essere non viene individuato nella nascita umana assolutamente uguale per tutti, ma se ne conosce solo la sua declinazione metafisica e trascendente (segnalata, fra l’altro, dall’uso reiterato che Gramsci fa del termine Spirito, solo parzialmente attenuato dalla denuncia della sua astrattezza), esso va negato se si voglia salvare la concretezza del divenire. Il che ha effetto anche su due punti cardine del marxismo: la prassi e la socialità. Il singolo viene giustamente concepito come pienamente inserito in un complesso di rapporti e viene ritenuto quindi puramente illusorio un miglioramento etico puramente individuale che non si rifletta in una modificazione della realtà, ma l’ attenzione tutta spostata sul divenire e sulla prassi fa sì che, nella dialettica interno/esterno, si attui un capovolgimento: «Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso… Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente “politico”, poiché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua “umanità”, la sua “natura umana” (Q. 1337/38 ).
Affermazioni chiarissime in cui, peraltro, ci sembra anche di cogliere in radice quel pedagogismo marxista basato sul primato della coscienza già utilmente indagato da altri (E. Amalfitano, [url”Dalla parte dell’essere umano. Il socialismo di Rodolfo Mondolfo“]http://babylonpost.globalist.it/Detail_News_Display?ID=72244&typeb=0&La-Sinistra-in-crisi-e-l-attualita-di-mondolfo-e-Gramsci[/url], L’Asino d’oro, 2012). Quest’ultimo elemento, in aggiunta agli altri sopra esposti, ci rafforza nella convinzione che c’ è un’enorme ricchezza nel pensiero e nell’esperienza umana di Gramsci – tale da farlo riemergere anche dai tradimenti togliattiani, chiaramente denunciati da M. Canali ([url”Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata“]http://babylonpost.globalist.it/Detail_News_Display?ID=90495&typeb=0&La-doppia-morte-di-Antonio-Gramsci[/url], Marsilio ed., 2013) -, ma la sua originale e validissima proposta dell’egemonia culturale non potrà mai realizzarsi se non arriverà finalmente a poggiare sul fondamento della nuova antropologia fagioliana integralmente atea.