di Antonio Cipriani
“Poche cose come la Resistenza smuovono in me un sentimento nel contempo poetico e politico. Uomini e donne che si fecero avanti, lasciarono le case, le famiglie, gli affetti, scelsero di giocarsi la vita per un concetto che oggi appare quasi astratto, quello della libertà. Erano ragazzi, avevano l’età dei nostri figli. Impugnarono armi, salirono in montagna, cercarono luogo e rifugio. Si fecero corpo di quella libertà negata. Scelsero la morte, a ogni passo, per poter vivere”.
Così ho scritto qualche tempo fa. E oggi, riflettendo su questo nostro 25 aprile, sulle bandiere rosse al vento e sulle parole della politica, penso che occorrano due “25 aprile”: uno per la memoria che rende fertile la libertà, l’altro per il futuro che ci restituisca la capacità di lottare contro il totalitarismo. Tenere accesa la fiamma della Resistenza dei nostri padri, ma non per una ritualità di parole museali: per fare dell’indignazione un motore politico di cambiamento, per battersi contro quel soffuso senso di “tutto risolto” che con la sua potenza mediatica ci costringe a sottostare a un totalitarismo ancora più infido. Più invisibile. In cui la parola libertà è un vessillo per tutti (padroni e schiavi, sfruttatori e sfruttati senza via di redenzione), ma la parola uguaglianza è diventata tabù. Un ostacolo alla crescita, all’affermazione individuale, non già la base politica di una condivisione di ideali, di strumenti di cambiamento.
Uguaglianza di diritti, di possibilità, di uso dei beni comuni. Contro ogni politica che ci incatena al mercato, al valore del denaro come fosse indiscutibile e superiore a ogni etica. Il 25 aprile che verrà, la Resistenza che la nostra generazione ha nel suo futuro, sarà contro il totalitarismo del mercato. Contro quel turbocapitalismo finanziario che ha reso impalpabili i diritti, che ha cancellato con lo scintillare di ricchezze fasulle e sistemi di schiavitù razionali e accettate, ogni aspirazione alla giustizia sociale: ogni speranza che non si debbano far crepare per fame i figli di qualcuno per far vivere nel superfluo figli di pochi altri. Ha cancellato l’idea del bene comune a favore del vantaggio privato di pochi.
Lo dico oggi, prendendo metaforicamente una delle tante bandiere rosse al vento e riportandola alla condizione di straccio (“…ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.”), ponendo un tema che non fa piacere: quello del conformismo. Di chi si è arreso all’ingiustizia e rinuncia alla battaglia politica in favore di una governabilità più onesta, ma sempre al servizio dell’Impero. Di chi strepita e sfrutta ogni ribollire xenofobo, fascista, qualunquista che sale libero da decenni di devastazione culturale. Di ignoranza elevata a paradigma di successo, di imbecillità e furbizia come valori contro bellezza, onestà, giustizia sociale.
Rassegnazione. “Oggi, direbbe il filosofo della politica Michael J. Sandel, il fronte di resistenza è quello in cui si decide se oltre ad avere un’economia di mercato – ciò che nessuno sembra avere la minima intenzione di mettere in dubbio – siamo anche rassegnati ad essere una società di mercato: cioè una società dove tutto – ma proprio tutto, niente escluso – si misura col metro del denaro. Una società in cui tutto ha un prezzo, e si può vendere e comprare. Una società in cui il declino dell’uomo pubblico analizzato da Richard Sennet è giunto al termine: e dunque una società formata dalla somma di tanti vissuti privati ridotti alla mera dimensione economica. Una società in cui parole come democrazia o politica non hanno più alcun senso”. Trovo bella e calzante questa considerazione di uno storico dell’arte, Tomaso Montanari. E sono convinto che solamente da chi non è allineato, dagli artisti, dai precari, dai creativi fuori dal sistema del marketing omologante può venire una spinta e una risposta per la nuova Resistenza. Necessaria, aggiungo. Contro il totalitarismo del lusso, dei diritti del più forte a schiacciare i diritti di tutti, contro chi cementa spiagge, giardini, parchi; contro chi tira su appartamenti a ridosso di Villa Adriana, e chi lo permette nel nome della tirannia del mercato che assedia le nostre esistenze. Anzi, ne agevola la devastazione per ottenere appoggi elettorali cospicui. Mi trovo in linea con Montanari: “ Oggi la linea della resistenza passa attraverso il paesaggio, i musei, le piazze storiche d’Italia. L’invasore che una mattina abbiamo trovato è il totalitarismo del mercato. Le armi di cui abbiamo bisogno si chiamano conoscenza, educazione, formazione”.
Non basta mettere fiori alla memoria, e cantare Bella Ciao. Occorre ricordare che quella fu la liberazione degli oppressi, il sogno di un futuro diverso degli sfruttati. E oggi, più che mai, occorre resistere alla retorica del potere, al ricatto di un sistema che espelle chi non si omologa in ogni lavoro: in primo luogo laddove si sviluppa e si diffonde conoscenza.
Ps. Dedico queste riflessioni a Sergio Flamigni, commissario politico della 29ª brigata GAP “Gastone Sozzi”. Nome di battaglia Sergio. E a tutti quelli che non si sono arresi e che non si arrendono.