In quei campi di concentramento e di sterminio i Nazisti ammassavano ed eliminavano numeri, come racconta il sopravvissuto Marcello Martini ai 600 ragazzi, partecipanti a questo viaggio della memoria, nel pomeriggio dopo la visita a Aushwitz, nel cinema di Cracovia assieme ad altre sopravvissute, Vera Salomon e alle Sorelle Bucci. Marcello Martini pronunciando in tedesco il suo numero tatuato sul braccio: “questo numero è stato il mio nome, cognome, stato anagrafico, per tutto il periodo che sono stato ospite del campo di Mauthausen”. Si parla molto di “memoria” in questi ultimi anni, e uno dei compiti certi della memoria e ridare volti, nomi, storie a chi è stato annientato in quei campi. I racconti dei sopravvissuti, le loro storie sono fondamentali. Marcello Martini faceva parte di una famiglia di antifascisti, il padre era di radio Cora, radio che aiutava i collegamenti con gli alleati. Lui 14enne ha collaborato, finché è stato preso dai tedeschi e portato a Fossoli e da lì imbarcato per la Germania. Il suo racconto della deportazione inizia della paura provata in treno perché i tedeschi avevano ammonito che avrebbero fucilato 10 ragazzi del suo convoglio per ognuno che fosse scappato. Ne scapparono 4 quindi, quelli rimasti viaggiarono per tutto il tempo con il terrore che il treno si fermasse e loro venissero sommariamente fucilati. Ha raccontato che quel terrore è stato così grande che forse è stato un po’ un antidoto a tutti i momenti estremi vissuti dopo. “Appena arrivati al campo – ha raccontato – il discorso di benvenuto fu “Questa è la via per entrare, indicando il portone, e questa la via per uscire, indicando il crematorio che fumava e spandeva odore di carne bruciata”.
Le condizioni erano estreme a causa delle 12 ore di lavoro al giorno, alla denutrizione e alla crudeltà presente nel campo. Martini fu trasferito anche in un altro campo, per un periodo e poi costretto il primo d’aprile del ’45 alla marcia della morte per tornare a Mauthausen (che è stato liberato dagli alleati nel maggio del 1945, diversi mesi dopo Auschwitz). Ha raccontato Martini: “La marcia della morte… 240 da fare a piedi senza mangiare assolutamente niente salvo qualche ciuffo d’erba che uno strappava dalla strada. I 50 che erano prigionieri che erano in infermeria, prima di partire furono uccisi con una puntura di benzina e lasciati lì, noi siamo partiti in 800 arrivati in 200. Qui ho conosciuto un’altra prova di solidarietà, perché essendo in uno stato di semi incoscienza, più volte qualcuno mi deve aver messo in piedi per all’appello del mattino, sarei altrimenti stato fucilato sul posto”. Diversi sono i momenti in cui Martini parla della solidarietà in quei momenti terribili, solidarietà che gli ha consentito di essere con noi a raccontare oggi: la frutta data dai contadini a Fossoli prima di partire sui treni piombati, l’assistenza in infermeria quando a Mauthausen si è ferito un piede, le patate trovate in modo rocambolesco da un amico in un momento in cui non riusciva più a mangiare. Quindi accanto alla denuncia che lui stesso fa, dicendo che l’organizzazione dei campi e delle deportazioni: “Coinvolgeva non solo le SS ma tutta una parte di popolazione civile”, Martini sottolinea questi episodi di solidarietà che gli hanno probabilmente salvato la vita.
Un’altra storia di giovinezza raccontata in questo pomeriggio di memoria, ha preso forma dalle parole di Vera Michelin-Salomon che era entrata a far parte della resistenza non armata e in particolare nell’organizzazione del Comitato studentesco di agitazione a Roma, per questo imprigionata prima a via Tasso poi deportata al Frauen Zuchthaus di Aichach (Alta Baviera), lo stesso campo – sottolinea Vara Salomon – dove sono stati uccisi i rappresentati della Rosa Bianca, unico movimento di resistenza anti-nazista in Germania. Solo occhi giovani e forti in quella situazione potevano ridere alla vista dei cani delle SS vestiti da SS, come lei racconta sorridendo ancora oggi.
Vera Salomon definisce la sua una “storia di formazione”. Non esita a denunciare la gravità di attaccare il diverso, nella sua voce c’è un chiaro riferimento all’oggi, racconta con passione e consapevolezza la resistenza operata nel lavoro, della nudità cui erano spesso sottoposte, come dice lei stessa: “venivamo lasciate nude come vermi”. Ha raccontato della fame, delle malattie nel campo, delle punizioni ma anche di piccole azioni di boicottaggio che volte le prigioniere facevano segando il filo della cucitura delle scarpe per i soldati tedeschi, in modo che si scucissero presto.
I prigionieri politici sono stati deportati non perché appartenenti ad un razza ma per un’idea, per l’idea di un mondo diverso. “E’ molto facile – ha detto Vera Salomon – considerarsi fuori. Basterebbe invece un gesto, un si o un no per far vedere che non si è d’accordo”. La fine della guerra sono arrivati gli americani hanno aperto le porte del campo e ci siamo ritrovate tutte le prigioniere insieme, di tutte le nazionalità: francesi, tantissime greche, jugoslave. Erano i primi di maggio e fiorivano i lillà, quindi lì avevamo raccolti e messi lì nel piazzale dove eravamo tutte, quasi in cerchi. Ognuna di noi ha detto nella propria lingua brevi messaggi di felicità e poi volevamo fare una cosa tutte assieme e abbiamo cantato l’Internazionale, che tutte conoscevamo. Era il 29 aprile del ’45.
Le sorelle Andra e Tatiana Bucci hanno chiuso questo pomeriggio di incontri. La loro storia di deportate bambine, avevano 6 e 4 anni, gela cuore e pensieri. Scambiate per gemelle erano destinate agli esperimenti d Mengele ma forse grazie alla benevolenza della loro “blockova”, la loro guardiana sono probabilmente sopravvissute. Hanno raccontato un episodio esemplificativo: “un giorno la blockova ci ha detto che sarebbero venuti a chiederci se vogliamo tornare dalla mamma, voi dite di “no”. I bambini che hanno detto “si” sono stati portati via, e sottoposti esperimenti terribili e sono morti appesi a dei ganci da macellaio. “Tra di loro c’era nostro cugino, cui non avevamo detto di rispondere “no” di non voler andare dalla mamma”, ha raccontato Andra. La loro è una storia molto rara perché oltre ad essere sopravvissute loro è sopravvissuta anche la mamma che le ha poi ritrovate dopo la guerra. Alla domanda posta loro dai ragazzi se hanno fede rispondono in modo differente Tatiana dice di avere una sua forma di fede, mentre Andra si definisce atea, dice di credere nella vita, forse anche per quello che ha vissuto da bambina, perché dice “Chiedono “Dov’era Dio a Auschwitz?” e alcuni rispondono, che aveva forse altro da fare. Ma in quel momento non c’era altro da fare!”
I ragazzi rimasti in silenzio per tutto il pomeriggio hanno tante domande, il tempo è poco, si deve lasciare la sala. Le domande verranno fatte in treno, durante il viaggio di ritorno che Le Sorelle Bucci e Vera Jarach Vigavani faranno con loro, con noi.
Il racconto del viaggio di ritorno sarà l’ultima tappa di questo diario…