Antonio Gramsci, l'eretico che non perse mai la tenerezza
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Antonio Gramsci, l'eretico che non perse mai la tenerezza

Intervista alla saggista Noemi Ghetti: non solo ateo e anticlericale, anche nel rapporto con le donne il padre della Sinistra italiana è un'anomalia nella storia del Comunismo.

Antonio Gramsci, l'eretico che non perse mai la tenerezza
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4 Febbraio 2015 - 17.52


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di Federico Tulli

La crisi della politica e quella della Sinistra in particolare ha stimolato negli ultimi anni la pubblicazione di numerosi libri su Antonio Gramsci. Tra questi il saggio di Noemi Ghetti Gramsci nel cieco carcere degli eretici ([url”L’Asino d’oro edizioni, 2014″]http://www.lasinodoroedizioni.it/novita/libro/144/gramsci-nel-cieco-carcere-degli-eretici[/url]) spicca per l’originalità della chiave di interpretazione del corpus teorico gramsciano proposta al lettore. L’autrice infatti riporta in luce la dimensione dell’insegnamento e del pensiero gramsciano che lo stesso Partito comunista italiano per tutto il secondo Novecento ha progressivamente teso ad insabbiare. La dimensione laica della società, il rifiuto della cultura di matrice cattolica, lo sdegno per l’ingerenza politica del Vaticano nelle cose italiane. Ecco allora la critica serrata del fondatore de L’Unità all’intera filosofia di Benedetto Croce, sviluppata nel Quaderno 10, e alla sua funzione di «papa laico», «strumento efficacissimo di egemonia» e «leader del revisionismo» presso l’opinione pubblica italiana ed europea. E poi ancora l’analisi approfondita di Gramsci sino alle radici della secolare egemonia cattolica e del potere politico ed economico che questa religione ha esteso nel mondo a partire dal cuore dell’Italia. Infine la questione dantesca. Studioso di linguistica, scrive Ghetti in introduzione, Gramsci delinea uno schema per la storia degli intellettuali italiani, in cui la «quistione della lingua» dalle origini duecentesche si intreccia con la «quistione cattolica», e dal 1870 con la «quistione vaticana».

Di qui ci ritroviamo in un vero e proprio intrigo storico con la narrazione che assume il ritmo di un avvincente noir. Un intrigo che ruota intorno alla figura di Palmiro Togliatti e che si dipana dal secondo dopoguerra a oggi senza soluzione di continuità, le cui conseguenze sono di estrema attualità essendosi materializzate nel fallimento della sinistra italiana ben rappresentato dagli estimatori del gesuita papa Francesco. I quali fingono (probabilmente) di non sapere del suo contraddittorio passato ai tempi della dittatura fascista argentina, che sia un convinto assertore dell’esistenza del diavolo, che consideri dei sub umani i bambini non battezzati (per costui sarebbero diversi da quelli battezzati) e le donne (no contraccezione, no aborto etc). Emerge quindi dalle pagine di Ghetti il ritratto di un grande pensatore pienamente consapevole della realtà non solo politica con cui si trovava a dover fare i conti. Un uomo coraggioso che, “senza perdere la tenerezza” – direbbe il più noto biografo del Che, [url”Paco Ignacio Taibo II”]http://www.ilsaggiatore.com/argomenti/storia-cultura/9788842817819/senza-perdere-la-tenerezza-3/[/url] – nel rapporto con le donne della sua vita, condusse fino in fondo la propria battaglia di civiltà in opposizione al clerico-fascismo. Di contro, dopo la sua morte (1937), si è sviluppata a Sinistra una storia contorta (guerra partigiana a parte), segnata dai compromessi fallimentari con una controparte totalmente asservita ai dettami della Chiesa e intrisa della sua ideologia religiosa. Il catto-comunismo. Il nuovo umanesimo auspicato da Gramsci dal carcere fascista che ne voleva stroncare la vitalità ed il pensiero è stato così negato e annullato per anni dall’idea perversa che l’uguaglianza e la libertà degli esseri umani potesse essere perseguita sulla base di precetti religiosi e filosofici privi di rapporto con la realtà umana. Precetti che – Bergoglio docet – riconducono a una “condizione” di inferiorità (la disuguaglianza) chiunque li rifiuti.



Noemi Ghetti, come è nata l’idea di questo libro?

Il mio nuovo lavoro è lo sviluppo del precedente libro L’ombra di Cavalcanti e Dante, pubblicato nel 2011 da L’Asino d’oro edizioni, della cui attualità culturale e politica, a dispetto del tema in apparenza solo letterario, rappresenta l’autorevole e inattesa conferma. Solo per caso alcuni mesi dopo l’uscita del libro, osservando una riproduzione del manoscritto della prima pagina dei Quaderni del carcere, scoprii che Antonio Gramsci, prigioniero politico condannato a oltre venti anni di carcere, al quinto posto dell’elenco dei sedici «argomenti principali» che si riprometteva di svolgere durante la sua detenzione, aveva scritto: «Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina commedia».
Era l’8 febbraio 1929: ottenute finalmente carta e penna, nella cella di Turi il detenuto matricola 7047 progettava la sua «nota dantesca» sul canto degli eretici proprio nei giorni in cui Mussolini si apprestava a ratificare con i Patti lateranensi quella che Gramsci definisce «la capitolazione» dello Stato italiano alla Chiesa.

Scritto a più riprese dal leader sardo nel drammatico isolamento degli anni 1930-1932, l’ampio studio (Quaderno 4, 78-87) ritornava sul Canto decimo dell’Inferno, già toccato nell’articolo del 1918 Il cieco Tiresia dell’Avanti! E ne sviluppava, secondo un originale metodo storico-critico «integrale», l’aspetto insieme culturale, privato e politico, arricchendolo di contenuti allusivi alla propria vicenda all’interno del Partito comunista.

Fui sorpresa di non avere mai scoperto l’esistenza della «nota dantesca» durante le lunghe ricerche che avevano preceduto e accompagnato la stesura del primo libro, e riconobbi subito che l’analisi gramsciana del canto degli eretici risuonava nel giudizio espresso nel 1968 dal celebre critico piemontese Gianfranco Contini nel saggio Cavalcanti in Dante. Un giudizio controcorrente, unico nell’ambito della dantistica, che aveva appunto ispirato il titolo del mio libro. A proposito della «inquietante» presenza dell’ombra di Cavalcanti nella Commedia, Contini aveva ripreso quasi alla lettera alcune espressioni della nota dei Quaderni. Senza peraltro mai nominare Gramsci, che anche dopo il Sessantotto – come ha dichiarato Giacomo Marramao qualche giorno fa nel corso della presentazione romana del libro di Alberto Burgio Gramsci. Il sistema in movimento (DeriveApprodi, 2014) – continuava a restare poco frequentato dagli intellettuali. E pochissimo studiato anche nelle scuole. Oscurata dal falso mito togliattiano della continuità, la vera eredità di Gramsci continuava ad essere di fatto non esistente, nonostante che nel 1975 fosse stata pubblicata da Einaudi l’edizione critica dei Quaderni.
Ma la cosa che mi sorprese ancora più fu che, nel rinnovato dibattito italiano sulle tormentate vicissitudini dei Quaderni del carcere e sulla diffusione dei contenuti della ricerca gramsciana, che negli ultimi anni accompagnava la crisi della sinistra ispirando molte pubblicazioni, restasse poco nota la rilevanza dell’ampia «nota dantesca».

Mi immersi nella ricerca, e scoprii che, oltre alle importanti prese di distanza di Gramsci dal metodo critico di Benedetto Croce, sotto il mortale scontro tra Cavalcanti e Dante che costituisce l’enigmatica trama dei celebri versi, da Gramsci portato alla luce per la prima volta, era riconoscibile l’analogia con il sanguinoso dissenso politico con Togliatti, confermato dalle Lettere dal carcere. Caso unico attestato durante la detenzione, grazie al triangolo epistolare che, attraverso Tatiana e Piero Sraffa, da Turi passando per Cambridge arrivava a Mosca, Togliatti seguiva attentamente e commentava la stesura della nota, proprio nel periodo in cui, dopo la svolta totalitaria staliniana del 1929-1930 e la «canonizzazione» di Gramsci al Congresso di Colonia del 1931, l’esistenza di Gramsci era stata cancellata dalla scena pubblica comunista.

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Nel 1926 Gramsci scrisse una lettera a Mosca in difesa dei dissidenti, tra cui Trotskij. Tu ricordi che questa lettera fu intercettata da Togliatti e non arrivò mai al partito. Fu questa lettera a “condannare” Gramsci all’isolamento politico e quindi in qualche modo a facilitare l’arresto da parte dei fascisti?

Nella lettera al Comitato Centrale dell’ottobre 1926 Gramsci, allora segretario del PCdI, condannava il metodo violento usato da Stalin per stroncare il dissenso interno, e concludeva esortando all’unità: «I compagni Zinov’ev, Trotskij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione […] sono stati i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell’attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del CC dell’URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta a evitare le misure eccessive […] l’unità e la disciplina in questo caso non possono essere meccaniche e coatte, devono essere leali e di convinzione e non quelle di un reparto nemico imprigionato e assediato che pensa all’evasione o alla sortita di sorpresa». Togliatti, che si trovava a Mosca, decise di non renderla pubblica.
Impressionante è la sequenza degli eventi immediatamente successivi. Il 31 ottobre in Italia il fallimento di un attentato a Mussolini provocò un’ulteriore repressione poliziesca. Il leader sardo fu arrestato l’8 novembre 1926 nella suo domicilio romano, in deroga all’immunità parlamentare e in circostanze che legittimano più che un sospetto quanto meno sul suo abbandono da parte dei compagni.

Perché Gramsci pone la sua attenzione verso il canto degli eretici di Dante? A cosa è dedicata la «nota dantesca» scritta in carcere?

I dannati del Canto X dell’Inferno sono coloro «che l’anima col corpo morta fanno», ovvero gli eretici irriducibili, gli atei. Questa è la ragione di fondo per cui Gramsci vi dedica tanta attenzione. Pur essendo stato negli anni universitari una promessa della filologia, egli non ha infatti alcuna intenzione di diventare un esegeta dantesco, anzi in una lettera a Iulca irride i «professori rimminchiniti» che leggono ‘religiosamente’ la Commedia, condividendone il contenuto ideologico. Il Canto X è tra i più noti non solo dell’Inferno, ma dell’intera Commedia. Con quello di Paolo e Francesca (V) e quello di Ulisse (XXVI) costituisce una trilogia esemplare, in cui la concezione atea della poesia, dell’amore e della conoscenza, con cui nel Duecento in Sicilia era nata la lingua italiana, è radicalmente condannata da Dante, che trova l’uscita dalla «selva oscura», in cui dichiara di essersi smarrito, nella conversione al Dio cristiano. Gramsci per primo scopre che nelle feroci reticenze del canto di Cavalcante e Farinata, Dante ha celato l’inconfessabile segreto del tradimento di una intera concezione della vita e della poesia. Quella condivisa negli anni giovanili con Guido Cavalcanti, poeta dell’amore carnale e irrazionale per la donna e eccellente filosofo naturale, suo maestro e «primo amico». Del tutto originale è il giudizio gramsciano sul Duecento e su Guido Cavalcanti, definito «massimo esponente» della rivolta al pensiero teocratico medievale e del consapevole uso del volgare contro la ‘romanitas’ e Virgilio celebrati da Dante (Quaderno 7, 68).



Studioso di linguistica, scrivi nel libro, Gramsci delinea uno schema per la storia degli intellettuali italiani, in cui la «quistione della lingua» dalle origini duecentesche si intreccia con la «quistione cattolica », e dal 1870 con la «quistione vaticana». Gramsci ateo e laico. Sta qui la frattura intellettualmente e politicamente insanabile con Togliatti?

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La Commedia è per Gramsci «il canto del cigno medievale» e, nella sua opera di latinizzazione del volgare, segna la fine della gloriosa epopea laica dei comuni e il passaggio all’umanesimo cristiano (Quaderno 6, 63). Ha inizio da qui l’egemonia cattolica, di cui la «quistione della lingua», così come è impostata da Dante nel De vulgari eloquentia, rappresenta il cardine fondamentale. Con il tramonto del latino ecclesiastico e l’affermazione degli idiomi volgari, ogni volta che nei secoli si ripropone la questione della lingua – Gramsci osserva – la Chiesa oppone alla temutissima ‘babele’ dei dialetti della penisola il canone dell’imitazione della lingua trecentesca di Dante e Petrarca.
Del popolare e carnale Decameron di Boccaccio, ricordiamo infatti, la Crusca provvide subito a riscrivere un’edizione purgata. Accanto alla creazione con la Controriforma del Vocabolario della Crusca, possiamo inserire in questo disegno il secolare fenomeno del ‘petrarchismo’, la riscrittura dell’Orlando furioso in volgare fiorentino da parte del ferrarese Ariosto, fino alla scelta manzoniana di «sciacquare i panni in Arno» e oltre. La lettura della Commedia e de I promessi sposi diventa imprescindibile nella formazione scolastica della classe dirigente dell’Italia unitaria. E se la manzoniana Lucia è il modello femminile di virtù cristiane, non possiamo fare a meno di notare che Dante e Petrarca hanno strutturato la loro poesia, e con essa il lessico italiano, sulla morte delle rispettive muse ispiratrici, Beatrice e Laura, e sulla successiva conversione all’amore cristiano. Diventa così un topos nella letteratura occidentale la tragica scomparsa dell’immagine femminile, rea di avere avere invitato a una conoscenza della realtà umana mai fatta prima, e allo sviluppo di un’identità fondata sull’amore, che era stata proposta nel Duecento dai poeti siciliani e stilnovisti, nonostante la biblica condanna di Eva per avere proposto ad Adamo la conoscenza del bene e del male.

La lingua italiana moderna secondo Tullio De Mauro è per il 90% la stessa di Dante. Una lingua spiritualizzata, nella quale la parola «desiderio» si può orribilmente accostare alla morte, e definisce solo quello spirituale degli angeli per Dio, mentre quello carnale per la donna è peccaminoso «appetito». Pochi sono i letterati italiani che si sono ribellati all’imposizione del fiorentino trecentesco, e non a caso si tratta di irriducibili pensatori eretici, che come Cavalcanti hanno amaramente pagato la loro rivolta alla religione con l’abbandono anche da parte dei compagni e con la prematura morte. Parlo di Machiavelli, e soprattutto di Giordano Bruno.

Iulca, Tatiana ed Eugenia. In che modo queste tre donne sono state delle figure fondamentali nella vita di Gramsci?

Le tre sorelle Schucht hanno occupato un posto importante nella vita di Gramsci. Erano figlie di Apollon Schucht, un anarchico e poi socialista legato da rapporti di familiarità con Lenin, con il quale aveva condiviso un esilio a Samara e poi l’espatrio a Ginevra. Avevano poi vissuto e si erano diplomate a Roma, Eugenia all’Accademia delle Belle arti, Tatiana in biologia, Iulca in violino al conservatorio di santa Cecilia. Parlavano correntemente l’italiano. Nell’imminenza della rivoluzione del 1917 la famiglia Schucht era rientrata in Russia. Solo Tatiana era rimasta a Roma, e sarà lei che, incontrato Gramsci solo nel 1925, ne seguirà tutta la vicenda carceraria, da San Vittore a Turi, e poi durante il ricovero nelle cliniche di Formia e di Roma fino alla morte nel 1937. Fu il tramite di elezione con il mondo esterno, con la famiglia russa, con il Partito, confidente e depositaria delle volontà di Gramsci. Dopo la morte di lui tornata in patria, intentò un procedimento contro Togliatti – documentato da Mauro Canali nel libro Il tradimento. Gramsci Togliatti e la verità negata (Marsilio, 2013) – a proposito della «famigerata lettera» di Grieco del 1928, speditagli in carcere con timbro russo, che ebbe un ruolo decisivo nella pesante condanna di Gramsci e fu il suo tormentoso cruccio durante tutta la carcerazione. Eugenia, la maggiore, era stata incontrata da Gramsci nel 1922 nel sanatorio di Serebrianj Bor, dove fu ricoverato poco dopo il suo arrivo a Mosca. Rigida militante subito invaghitasi di lui, fu presto soppiantata da Iulca, la giovane violinista giunta in visita alla sorella, di cui il Professore italiano si innamorò dal primo incontro. La drammatica storia d’amore con Iulca non può essere qui raccontata. Merita di essere conosciuta attraverso le struggenti lettere dal carcere con cui Gramsci segue sollecitamente la compagna, sottoposta a Mosca alla sorveglianza del Partito e presto ammalatasi. E attraverso le toccanti lettere con le quali Gramsci accompagna la crescita dei due figli lontani, Delio nato nel 1924 e Giuliano, nato nel 1926 e mai conosciuto dal padre.

Se Gramsci “è” Cavalcanti e Togliatti “è” Dante, come definiresti il rapporto di Gramsci con le donne?

Lo definirei decisivo, e assolutamente anomalo nel contesto comunista, che non ha mai riservato molta attenzione agli affetti privati, e in generale all’irrazionale e quindi alla ricerca sulla realtà umana. Anomalo perché, trascorsi i primi due-tre anni dopo la rivoluzione di Ottobre, la «quistione femminile», emblematicamente rappresentata dalla storia di Aleksandra Kollontaij e dal suo scontro con Lenin, subisce dopo gli entusiasmi libertari una decisa involuzione con la NEP. Con l’occasione di riforme richieste dalla grave crisi economica, le donne vengono private di tutte le conquiste rivoluzionarie e ricacciate al tradizionale ruolo di custodi del focolare domestico.

Dal rapporto con Iulca a quello con la sorella Teresa, alla convinzione della necessità della istruzione delle bambine, direi che il rapporto con le donne di Gramsci rappresenta l’intima certezza dell’uguaglianza per nascita, e insieme della diversità, pur nella difficile dialettica sessuale. La condanna del logos e della religione nei confronti delle donne, esseri umani meno provvisti di razionalità, non echeggia mai nella pagina gramsciana. Da questa prima certezza discende in modo decisivo l’atteggiamento di Gramsci nei confronti di tutti gli oppressi, ed è una componente fondamentale della sua elaborazione della teoria dell’egemonia come lotta per la conquista di un nuovo umanesimo, che vada oltre la scissione, condivisa da Platone e dalla Bibbia, tra corpo e mente, tra affetti e ragione.

Togliatti, è qui appena il caso di ricordare, addita ripetutamente alle donne comuniste l’esempio delle grandi sante cattoliche come modello di realizzazione. E non mostra certo nei confronti dei figli, degli artisti, degli oppressi la sensibilità di Gramsci.

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“Il Vaticano è un nemico internazionale del proletariato rivoluzionario” avvertiva Gramsci. Oggi invece specie in Italia quel che resta della Sinistra esalta papa Bergoglio definendo rivoluzionarie e progressiste le sue idee… sul welfare, sulle donne, sui bambini, sull’essere umano in generale. Qual è il tuo parere?

Le analisi dedicate da Gramsci al Vaticano e alla capillare organizzazione mondiale con cui si assicura il potere politico ed economico sono forse la ragione della scarsa conoscenza del suo geniale pensiero in Italia, che si può osservare tuttora.

Non mi voglio dilungare sulla tragica farsa di una sinistra italiana in ginocchio davanti al Papa gesuita vestito da francescano, colluso a suo tempo con il regime di Videla, che senza suscitare scandalo afferma che [url”«i bambini battezzati non sono uguali ai non battezzati»”]http://www.tempi.it/papa-francesco-un-bambino-battezzato-non-e-lo-stesso-che-un-bambino-non-battezzato#.VNJHdC7kqHQ[/url]. Un Papa che continua di fatto a coprire la pedofilia ecclesiastica, [url”come accusa l’Onu”]http://www.lasinodoroedizioni.it/libri/130/chiesa-e-pedofilia-il-caso-italiano[/url] evidenziando le profonde radici ‘culturali’ di un crimine continuato, perpetrato in tutto il mondo ai danni, soprattutto, degli indifesi. Il progressismo delle idee bergogliane sul welfare? Dico solo che tra l’assistenzialismo cattolico nei confronti dei poveri e l’emancipazione degli oppressi perseguita da Gramsci l’abisso è incolmabile. Docce e barbiere per i barboni sotto il colonnato del Bernini non bastano. Parliamo piuttosto di Scuola pubblica abbandonata e di Scuole cattoliche sovvenzionate, contro il dettato costituzionale, dallo Stato italiano qualsiasi sia il governo in carica.

Qual è secondo te la dimensione più attuale del pensiero gramsciano?

Gramsci è oggi, con Machiavelli, l’autore italiano più tradotto e studiato nel mondo. L’attualità di questo grande inattuale consiste nella proposta articolata di un nuovo umanesimo, che vada oltre il fallimento del comunismo, individuando il punto in cui Marx ha perduto la speranza di trovare una nuova idea di realtà umana, non viziata dalla millenaria e falsa scissione tra corpo e spirito: quella nuova antropologia che Feuerbach assegnava come compito delle future generazioni. Che vada oltre le aporie della scissione tra struttura economica e soprastruttura, che si riflette nella distinzione elaborata dallo psichiatra Massimo Fagioli tra bisogni ed esigenze. La realtà umana è fatta non solo di bisogni materiali da soddisfare, come vuole il marxismo, ma di esigenze di realizzazione della propria identità. Attento traduttore degli scritti del giovane Marx, Gramsci ne scopre le carenze proprio mentre scrive la «nota dantesca». Nemico delle «filosofie definitive», rifiuta l’idea di «un inconoscibile», detto da Kant «noumeno» e da Croce «dio ignoto» (Quaderno 10, 40). Non ha la soluzione, ma non si piega alla millenaria credenza, e prevede che «quando gli strumenti ‘fisici’ e intellettuali degli uomini saranno più perfetti», qualcuno raccoglierà la ricerca della «perla delle perle», che Marx diciannovenne nella Lettera al padre del 10 novembre 1837 raccontava di avere fallito, cadendo nelle braccia di Hegel. La scoperta della nascita umana, teorizzata da Fagioli dal 1971 con Istinto di morte e conoscenza ([url”L’Asino d’oro edizioni”]http://www.lasinodoroedizioni.it/autori/1/massimo-fagioli[/url]), offre alla sinistra la chiave dell’uguaglianza naturale di tutti gli esseri umani che Gramsci cercava (per approfondire, su Babylon Post: [url”Uguale e diverso: dai calcoli degli antichi alla scienza della realtà umana“]http://babylonpost.globalist.it/Detail_News_Display?ID=114236&typeb=0&Uguale-e-diverso-dai-calcoli-degli-antichi-alla-scienza-della-realta-umana[/url] di Edoardo B. Drummond ). La teoria della nascita costituisce l’unico vero fondamento di quella «rivoluzione non delle armi, ma del pensiero e della parola», che Antonio Gramsci disegnava nel carcere degli eretici con la sua nuova idea di egemonia culturale dal basso.

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