È uno dei critici teatrali più attenti alla bellezza teatrale e all’intreccio tra tradizione e sperimentazione sulla scena. Andrea Porcheddu da trent’anni segue storie e percorsi teatrali, ne sa perché ne vede e ne scrive con coscienza. Cordiale e ironico, usa un linguaggio chiaro, efficace per tutti, abituato com’è a trasmettere le sue conoscenze ai più giovani, a chi vuole percorrere la strada della critica teatrale. Risponde a queste mie domande in modo preciso e appassionato.
Come definisce il teatro contemporaneo: morto, moribondo o felicemente in risalita? Io non sono tra i catastrofisti: il teatro è in ottima salute, sta bene, è vivo. Forse l’unica preoccupazione che dobbiamo porci è che rischia di essere ucciso da una gestione politica della cultura che fa acqua da tutte le parti.
Può fare un esempio concreto? Ma certo, pensiamo all’Arena di Verona che rischia il fallimento nonostante faccia da anni il tutto esaurito, sia conosciuta in tutto il mondo e ha un bacino di utenza planetario. È come se un giorno fallisse l’October Fest di Monaco: sembra una cosa possibile? Ecco in Italia invece queste cose accadono. È chiaro che è problema di gestione. Il teatro dell’Opera di Roma si sta riprendendo proprio grazie al lavoro di Carlo Fuortes che sta facendo miracoli. Ha rilanciato un teatro in enormi difficoltà in una città come la Capitale che vive da anni momenti bui. Quindi ripeto: la creatività è salva. Il problema è politico. Si può fare un teatro di qualità che incontri anche l’interesse del grande pubblico, la ricetta di Fuortes lo conferma.
Gli artisti dunque sono vittime? Sì esatto, nella confusione generale di una fase passaggio e di riforma necessaria e attesta, a farne le spese sono gli artisti e i tecnici che vanno in scena nel teatro di prosa, sottopagati senza tutele, addirittura a volte rimettendoci anche in teatri stabili pubblici che vengono amministrati male.
Può fare il nome di qualche avanguardia teatrale poetica che possa farci sognare di nuovo, che sovverta il teatro? (Sorride) Parole grosse, credo che ci siano però due tendenze in atto che a me stanno interessando molto. La prima è un teatro fatto da attori, alcuni di questi si assumono l’onere della regia, affrontando i testi in modo disinvolto, veloce, pratico, attorale, per ritrovare il contatto con il pubblico. Da Toni Servillo a Iuri Ferrini da Valerio Binasco ad Arturo Cirillo e Filippo Dini. Sono tanti questi attori-registi che, guardando al passato, stanno illuminando il futuro del teatro con opere di qualità che però fanno divertire il pubblico e lo fanno tornare nei teatri. L’altra tendenza in atto è il teatro sociale d’arte. Quel teatro che nasce da contesti sociali diversi e marginali e che ha perso quella funzione appunto sociale di recupero e interazione, ma che sta facendo cose qualitativamente interessanti che secondo me stanno cambiando il panorama della ricerca teatrale. Si inventano nuovi linguaggi con nuovi attori e nuove drammaturgie. Un esempio la Compagnia della Fortezza di Volterra, oppure Babilonia Teatri. Si sta indagando su una teatralità più ampia e stanno venendo fuori lavori artisticamente interessanti.
Lei è noto per aver raccontato tendenze e individuato giovani talenti della scena. Cinque nomi e cinque perché per il teatro degli anni ’10. Difficile fare nomi, difficile restringere a una cinquina di personalità le tendenze e le speranze di un decennio. Ci provo, ma saranno almeno dieci: due drammaturghi come Fabrizio Sinisi e Mariano Dammacco; due attrici come la brava Alice Arcuri e la debuttante Francesca De Pasquale; due attori-autori-registi come Michele Sinisi e Giuliano Scarpinato; due gruppi come Vico Quarto Mazzini e Punta Corsara; due luoghi come Carrozzerie Not di Roma e Fuori Luogo di La Spezia.
Attualmente come è il rapporto tra giovani e teatro? Manca una cultura teatrale in Italia che invece c’è in Gran Bretagna per esempio. Il teatro è visto come qualcosa di lontano anche perché chi lo fa spesso ha più di 60 anni ed è lontano dal modo di pensare dei ragazzi. Ci vuole un ricambio generazionale.
La scuola dovrebbe avere un ruolo in questo “avvicinamento”? Certo, ma non darei la colpa agli insegnanti che fanno i salti mortali anche per portarli a teatro una volta all’anno. La colpa è di come vengono gestiti anche gli spazi. In italia un teatro è respingente, ha orari limitati, non c’è un bar, un salottino per sedersi e chiacchierare dopo lo spettacolo, non è un luogo di incontro. Se vogliamo che cambi l’approccio dei più giovani dobbiamo modificare quella che è la visione del teatro: la nostra mentalità tutta italiana e sbagliata.