di Jules Elisard e Giuseppe Aliverti
(Questo lavoto, interessantissimo, è apparso su A/ Rivista anarchica del novembre 1981. Dedicato ad Albert Camus, scrittore e filosofo, premio Nobel per la letteratura nel 1957 morto il 4 gennaio del 1960 in un incidente stradale.)
Un uomo di 47 anni muore in un incidente d’auto. In tasca gli trovano un biglietto ferroviario con destinazione Parigi, che non ha usato perché un amico gli ha offerto un passaggio in macchina; ma il rettilineo finisce in una curva e la macchina in un burrone, dove la morte tranquillamente un uomo con un biglietto pagato in tasca. Era Albert Camus.
Melville ebbe a scrivere in uno dei suoi libri più famosi che la vita è un viaggio senza ritorno di cui si è comprato già il biglietto; e in fin dei conti si tratta solo di prepararsi, e organizzarsi la traversata temporale. Così Camus, così tutti: ma in che modo si era preparato – ammesso che si sentisse preparato – Albert Camus? Questa è, per l’appunto, la domanda a cui cerchiamo di rispondere qui. Scusate se è poco.
poche idee ma ben confuse
Nel 1958, a tre anni dall’Appuntamento, Camus, scrivendo la prefazione per la riedizione del suo primo libro pubblicato L’envers et l’endroit (Il rovescio e il diritto), coglie l’opportunità per riflettere rapidamente sulle spinte e controspinte interne ed esterne di tutta una carriera esistenziale e letteraria. Dopo un tracciato disseminato di tappe, salti, ripensamenti, polemiche, l’autore sembra giunto a questa conclusione: “… un’opera umana non è nient’altro che questo lungo cammino per ritrovare, con i sotterfugi dell’arte, le due o tre immagini semplici e grandi sulle quali una prima volta il cuore si è aperto. Ecco perché, forse, dopo vent’anni di lavoro e di attività, io continuo a vivere con l’idea che la mia opera non sia nemmeno cominciata”.
In questo scritto Camus sembra voler chiudere i conti con se stesso e con gli altri per tornare a cercare, nelle origini della coscienza di uomo e scrittore, lo spunto autentico – e la “curiosa” speranza – per una fase nuova, o meglio, per una sognata e pretesa dimensione reale, concreta, definitiva del suo lavoro intellettuale. La cosa incuriosisce ed intriga, perché Camus accompagna l’ammissione di un nulla di fatto con la certezza che la sua possibile opera a venire non sarà altro che un disvelamento, un dissotterramento, con gli arnesi della creazione artistica, delle “due o tre immagini semplici e grandi”.
Ambiguità, oscillazione, equivoco, contraddizione sembrano segnare, insieme ad un repertorio abbastanza limitato di idee, di fatti e quindi pieno di ripetizioni non sempre volontarie, la traiettoria dell’esperienza esistenziale, letteraria e morale di quest’autore. Insomma, Camus era uno dei tanti ad avere poche idee, ma ben confuse sul perché della nostra esistenza: e proprio uno dei suoi pregi sia come scrittore che come maître à penser è stato quello di rivendicare la confusione delle proprie idee come un suo proprio diritto, da sfruttare quindi nel suo tentativo di interpretare l’uomo e il suo mondo. Ma la fama cascatagli addosso ha fatto sì che il rivendicare il nulla (il caos) come punto iniziale per un’indagine umana e sociale sia stato tramutato da altri in una legittimazione di questo, per cui ogni tentativo di costruire un “qualcosa” dal nulla veniva interpretato come la noiosa ricerca di chi vuole edificare il “tutto”, la “totalità” dal niente.
Camus invece combatte il tutto – la totalità – il totalitarismo e afferma la completa parzialità, il limite in cui ogni uomo è stretto e in cui si misura superandolo: questo limite è rappresentato da un presente senza speranza in cui l’uomo è disposto a giocare la propria vita fra ciò che vorrebbe che il mondo sia e ciò che il mondo è. Da qui nascono le poche idee, ma ben confuse che accompagnano tutta l’opera – i romanzi, i taccuini, i saggi filosofici, i drammi – idee “semplici e grandi” come la morte, l’assurdo della vita, l’indispensabilità del sole, la solitudine di un esilio forzato, idee che, ben lungi dalla banalità dei loro concetti, rappresentano positivamente l’intrepida ricerca sull’uomo compiuta da questo scrittore.
l’uomo mediterraneo
Per tracciare la biografia di Albert Camus, più che inseguire date e giuochi è utile rifarsi principalmente all’evolversi del suo pensiero, tenendo sempre presente la sua natura e il suo spirito profondamente mediterranei. In che senso?
Si è interpretato Camus come uno dei pensatori dell’esistenzialismo e si sono accomunati i suoi romanzi più significativi (Lo straniero e La peste) con La nausea e Il muro di Jean-Paul Sartre. Ma Camus stesso rifiutò l’etichetta di esistenzialista e la presunta affinità con Sartre. Eppure, qualcosa accomuna questi due scrittori, anche con tutte le loro differenze: è sì un qualcosa di esistenziale/esistenzialista, ma è una disposizione mentale che, benché nata nello stesso periodo – fra le due guerre – ha per il parigino Sartre soprattutto un carattere di “imparato”, mentre per l’algerino Camus ha un sapore di “vissuto”.
Cresciuti intellettualmente fra le due guerre, essi assaporano l’aria di fumo e di macerie che l’Europa regalava a piene mani; l’uomo si trovava di fronte a una guerra finita che stava per ricominciare e l’eterna domanda del “chi sono io, per chi, per che cosa?” era sempre più angosciante e disperata. L’esistenzialismo, la coscienza del nulla e del vuoto in cui i valori della civiltà occidentale venivano immersi dalla furia distruttrice del Potere apparivano allora gli unici argini contro l’ondata incomprensibile di fatti storici sempre più terribili e devastanti. E se prima – agli inizi del secolo – l’uomo era concepito come macchina agente, ora viene analizzato in quanto macchina pensante, incapace di comprendere la propria esistenza in quanto tormentato dalla paura, dalla storia e dalla morte. Questo esistenzialismo, però, si differenzia nei due scrittori per i modi in cui esso viene affrontato ed esplicitato: in Sartre la coscienza del nulla è tesa verso un’indagine intellettuale e una ricerca filosofica nel pensiero occidentale di motivi e tematiche che affrontino l’uomo come essere pensante e non come essere vivente; in Camus, al contrario, l’esistenzialismo non assume gli aspetti di una dottrina “imparata” e risucchiata dai libri, ma si rivela essenzialmente come esperienza di vita, come pensiero vissuto, quasi sofferto.
Profondamente mediterraneo (era nato ad Algeri), Camus è ben lontano dalle sottigliezze del pensiero filosofico di Kierkegaard, Husserl, Jaspers, Heidegger: non ha bisogno di riflessioni intorno alla povertà spirituale dell’uomo, perché sa di poterla descrivere, in quanto sa di viverla: la povertà, il sole, il mare sono i limiti della sua esistenza. Limiti, oseremmo dire, accentuati da una condizione sociale in cui la sola ricchezza è data dalla natura e dal clima mediterranei. Non per nulla egli ritrova nell’atmosfera e nei luoghi della sua Algeria gli spunti maggiori per le sue opere e in particolare per i due suoi romanzi più famosi (Lo straniero e La peste) che lo portarono alla celebrità.
L’ambientazione di entrambi i romanzi riporta a città algerine, città dove il sole non è semplicemente cornice, ma addirittura architettura: sole, caldo e mare sono presenze costanti, personaggi impassibili ma determinanti nell’intreccio narrativo. Nello Straniero – in cui si racconta la vicenda di un omicidio e di una condanna a morte assurdi nella loro chiarezza di eventi e nella loro oscurità di intenti – proprio il sole serve a Camus per definire l’inspiegabilità dell’omicidio compiuto dal protagonista Raymond Meursault: è insomma il simbolo trasparente del concetto di assurdo, concetto che fa la sua prima apparizione in un suo famoso saggio, Il mito di Sisifo, uscito nello stesso anno dello Straniero. Ma non è il solo esempio. L’atmosfera afosa e l’assenza di ombra che governano la calda cittadina di Orano, dove avvengono i fatti del romanzo, La peste, colpiscono immediatamente il lettore: il mortale bacillo deve fare i conti con un clima che fa da controcanto ironico agli eventi: il sole/la luce, sulle tenebre/la peste. In questa dolce e monotona città algerina, bagnata dal mare e abbracciata dal sole, la peste usurpa e il tempo ridicolizza le abitudini quotidiane dei cittadini, che diventano prigionieri di una morte atroce sotto un cielo azzurro e un sole paonazzo. Prigionieri in libertà, gli abitanti di Orano si vedono accomunati nella loro condizione assurda, senza speranza, che sole e peste non fanno altro che rendere evidente, chiara, inequivocabile al massimo grado e una volta per tutte: luce-ombra, vita-morte non sono altro che aspetti differenti di uno stesso mistero. Così infatti Camus rappresenta la situazione dei cittadini di Orano: Il sole perseguitava i nostri concittadini in tutti gli angoli di strada, e, se si fermavano, allora li colpiva. (…) Nei sobborghi, tra le vie piatte e le case con terrazza, l’animazione calò e nel quartiere, in cui la gente viveva sempre sull’uscio, tutte le porte erano chiuse e le persiane serrate, senza che si potesse sapere se in tal modo ci si volesse proteggere dalla peste o dal sole.
Del resto, per capire la straordinaria importanza che Camus dà a questa sua concezione del clima, metafora per lui della condizione umana, bastano queste parole della sua prefazione a Il rovescio e il diritto: Si trovano nel mondo tante ingiustizie, ma ce n’è una di cui non si parla mai, ed è quella del clima. Di quell’ingiustizia sono stato a lungo, senza saperlo, uno dei profittatori.
la morte verrà all’improvviso
Se nel clima mediterraneo, Camus riscontrava una ricchezza che “non costa nulla”, contemporaneamente però era consapevole che al sole corrisponde l’ombra – così abbiamo visto nella Peste – e che quest’ombra, sotto tutte le latitudini, ti è sempre appresso: la morte. Nulla appare assurdo quanto la morte. Camus dovette riflettere molto intorno a questo quando cercò di trascrivere in forma letteraria ciò che provava, ciò che viveva di assurdo, nell’assurdo, con l’assurdo: la propria esistenza. Capire la morte voleva dire capire perché si vive, per il fatto che la morte è la misura, il parametro, il tempo della nostra vita. Questo concetto doveva superare in Camus la banalità del luogo comune (“Si vive per morire”). Di fronte alla morte si è soli. Altra banalità. Ma anche di fronte alla vita, al modo in cui si sceglie di vivere si è soli, disperatamente soli… a meno che non si stabilisca come vivere, ponendo, ad esempio, uno scopo al nostro modo di vivere quotidiano. Ed ecco allora che “si muore per delle idee” e si crede addirittura di vivere per queste (la Storia!).
Ma cerchiamo di vederla altrimenti. Un uomo sicuramente muore, lui stesso conosce questo fatto: sa di dover morire, “come e quando non importa”. Ma non solo. L’uomo misura la propria morte nella morte degli altri, dando la morte agli altri, oppure dandosi la morte. Quindi l’uomo muore, si dà la morte, dà la morte: già questo dimostra la sua esistenza. Ma perché morire? Quando morire? Come morire? Se la morte, come dicono i teologhi, rendesse tutti uguali, il problema sarebbe in verità risolto: si muore perché solo in questo modo ci si sente uguali. Del quando e del perché è solo questione di fede.
Ma, al contrario, la morte non solo non rende uguali, ma impedisce, in quanto consumo totale del tempo, il realizzarsi dell’uguaglianza; perciò avrebbe senso solo nel caso paradossale che essa fosse il risultato di una vita spesa nel giusto. Camus rifiuta di barattare la morte per un “al di là” o per un “al di qua”; la morte, almeno questa, non è una merce, quindi non produce valore, non si consuma. Si è consumati. Si muore soli con la morte, non solo perché siamo “noi” a dover morire, ma perché si è unici nel morire. Nel vivere si è in gruppo. La vita è una banalità collettiva: si dà la vita per il semplice fatto che si inonda una vagina, uno “scherzo del cazzo”! ma provate a pensare lo stesso della morte! Camus, nella Peste lo ha fatto.
Così, non c’è morte qualitativa: “si muore bene”; al contrario, vi è una morte quantitativa, “si deve morire il meno possibile”. Ad Orano, il dottor Rieux e i suoi amici trovano motivo di esistere combattendo la Peste, l’ambasciatrice della morte; l’assurdo non alberga solo nelle morti gratuite, e nemmeno nell’impotenza di fronte a queste, ma anche nell’impegno che gli abitanti nella cittadina si assumono per dimostrare di essere anche nella morte. Dopo un primo momento, i bar riprendono a funzionare, il cinema a proiettare, la gente riesce a stare a galla e a nuotare in quel mare di disperazione e di esilio. Se in quei mesi della peste, l’uomo si accorge del limite impostogli dalla morte, questo non lo priva del coraggio di superarlo, pur sapendo che con la morte la partita è persa in partenza. Ma che almeno sia una bella partita!
La peste descritta da Camus nel libro – che gli costò sei anni di lavoro – era, come si sa, la rappresentazione simbolica del nazismo, così come la tenace lotta contro l’epidemia stava a significare la Resistenza Partigiana. Ma, come giustamente è stato scritto, quello che interessa a Camus non è semplicemente fornire un gigantesco affresco allegorico del nazismo, il “tozzo microbo della peste”, e neppure ricreare il senso storico della lotta, gli schieramenti, la “vittoria”; quello che veramente sembra più importargli è la rappresentazione dell’uomo come individuo che “si rivolta contro il male” nei suoi singoli, privati motivi per questa rivolta. Un atteggiamento anti-ideologico: La peste ha dunque una propria filosofia, secondo la quale “l’importante non è guarire, ma vivere coi propri mali”; e se dalla morte non si guarisce, non è detto che la morte debba per forza rendere ammalati. Riconoscere i propri limiti non vuol dire “restringersi”; al contrario, conoscere il limite della propria esistenza, la morte, coincide in definitiva col riflettere sull’esigenza di arricchire la propria vita, e quindi con l’accettarla pienamente nel suo eterno presente, fatto anche di assurdo.
Per Camus, l’unico senso che può avere la vita è quello di viverla senza ricorso, nella piena consapevolezza che si vive senza speranza possibile, ma con tutta la ricchezza che questo nulla è capace di offrire. Sì, è vero, siamo tutti impestati. Ma quanti sono in grado di prendere coscienza di questa situazione senza doversi abbandonare alla teologia o all’ideologia come sedativi contro il dolore? Per lo scrittore algerino, sa fare ciò sicuramente solo l’uomo che è consapevole dell’assurdo.
Sisifo felice
Inevitabile, a questo punto del discorso, soffermarci almeno un po’ per chiarire nei termini più espliciti possibili la nozione dell’assurdo in Albert Camus. Non è compito facile anche perché lo stesso scrittore nell’opera in cui tenta di descrivere il concetto (il mito di Sisifo) si trova effettivamente nella posizione (oseremmo dire “assurda”) di chi deve spiegare l’assurdo; ma descrivere e spiegarlo significa codificarlo in qualcosa che dell’assurdo non è che il ricordo, costringendo lo scrittore ad esprimere nel libro delle apparenze e non delle certezze: Il senso dell’assurdo, alla svolta di una qualunque via, può imbattersi faccia a faccia con un uomo qualsiasi. Tal quale, nella sua desolante nudità, nella sua luce senza irraggiamento, è inafferrabile. Per questo: Il metodo qui definito scopre la sensazione che ogni vera conoscenza sia impossibile. Soltanto dalle apparenze si può fare una statistica e soltanto il clima può essere sentito.
Se dunque Camus non ci è di grande aiuto nell’identificare materialmente l’assurdo, pur tuttavia ci riconduce sulla giusta strada quando ci fa riflettere sul fatto che “Bisogna immaginare Sisifo felice”. Sisifo, nella mitologia greca “era il più saggio e il più prudente degli uomini; ma, secondo un’altra tradizione, egli era incline al mestiere del brigante. Diverse e differenti sono le opinioni riguardo al misfatto per cui fu castigato e condannato a un lavoro inutile e senza fine: trasportare in cima ad una collinetta un macigno, per poi vederlo ricadere sul dorso del pendio e doverlo così di nuovo ricondurre alla sommità”. Camus lo ritiene “l’eroe dell’assurdo tanto per le sue passioni che per il suo tormento”. L’assurdo in Sisifo non sta né nella fatica a cui questo “proletario degli dei” è sottoposto, e neppure nelle cause – il disprezzo per gli dei, l’odio contro la morte e la passione per la vita – che gli hanno procurato l’indicibile supplizio; consiste al contrario nella compresenza e nel confronto fra una realtà data – il castigo – e una volontà che la supera – la discesa di Sisifo lungo il pendio verso il macigno per riprenderlo. Sisifo fatica, dunque, perché consapevole della propria sorte, perché, paradossalmente, è lui a sceglierla e per questo è il solo a beffarsi della propria condizione; non recrimina, non bestemmia gli dei: semplicemente li esaspera con la sua felicità durante la discesa del pendio. Sisifo è il vero giocatore della propria vita!
Ma per capire ancor meglio il “gioco di Sisifo” ed in esso la nozione di assurdo, non c’è altro da fare che rifarsi a un brano decisivo del Mito di Sisifo: È dunque con fondamento che dico che il senso dell’assurdo non nasce dal semplice esame di un fatto o di un’impressione, ma scaturisce dal paragone fra uno stato di fatto e una certa realtà, fra un’azione e il mondo che la supera. L’assurdo è essenzialmente un divorzio, che non consiste nell’uno o nell’altro degli elementi comparati, ma nasce dal loro confronto.
Questa consapevolezza del confronto fra i due termini del soggetto pensante e dell’oggettualità concreta adduce Camus a ritenere che l’uomo vivrà in perenne stato d’infelicità – in uno stato di paura e di omicidio – se continuerà ad ostinarsi di finalizzare l’azione (idealismo) o il mondo (materialismo dialettico). L’uomo può solo constatarne l’assurdo, ossia questo confronto, questo divorzio e cercare di viverlo il più possibile, perché il mondo, il nostro presente, non è né ragionevole né irragionevole, ma ciò che si può dire e ancor più ciò che si deve fare! È dunque a un presente senza speranza, che l’autore ci invita a partecipare; parrebbe una filosofia della rinuncia, ma Camus stesso risponde a questo dubbio: “L’assurdo ha senso solo nella misura in cui gli venga negato il consenso”. Constatare il divorzio fra ciò che la realtà è, e ciò che la realtà vorremmo che fosse – una volta esclusa qualsiasi speranza nella finalità terrena ed extraterrena delle cose della vita – non deve condurci in una condizione di “risentimento”, ma di “rivolta”; non dobbiamo abbandonarci nell'”inquietudine”, ma rimanere in una perenne “insoddisfazione cosciente”, non possiamo nutrire la “disperazione”, ma educarci a vivere con la “totale mancanza di speranza”.
Se il presente è anche l’unica condizione possibile che si presta al cambiamento, è bene anche sapere per che cosa. Ma la domanda di Camus a questo proposito suona così: è necessario possedere una finalità, una Storia, per essere spinti a cambiare il presente, o basta essere coscienti che è necessario cambiarlo? Affermare con lo scrittore che bisogna credere in un presente senza speranza vuol dire negare il diritto alla Storia di giudicare e criticare le nostre azioni, ma ancor più vuol dire negare la Storia. In precedenza si trattava di sapere se la vita dovesse avere un senso per essere vissuta; appare qui, al contrario che essa sarà tanto meglio vissuta in quanto non avrà nessun senso. Vivere un’esperienza, un destino, è accettarlo pienamente. Ora, non si vivrà tale destino, sapendolo assurdo, se non si farà di tutto per mantenere davanti a sé quell’assurdo posto in luce dalla coscienza… vivere è dar vita all’assurdo. Così formulata, la nozione di assurdo deborda da una concezione squisitamente “esistenzialista” per abbracciare quel contenuto di rivolta che lo scrittore nel suo libro “più” filosofico (per l’appunto L’uomo in rivolta) tratteggia chiaramente contro il vero pensiero esistenzialista contemporaneo che, pur partendo dalla concezione del nulla, approdava infine sulle rive di un materialismo dialettico in cui, per forza di cose, anche il nulla deve possedere una finalità e quindi una sua intrinseca giustificazione storica. È un libro-manifesto in cui si attesta la rottura, il baratro che lo divide dai vecchi compagni della Resistenza, da Sartre e dalla rivista “Les Temps Modernes”, e che arrecherà a Camus non poche critiche odiose, false e avvelenate da parte di una sinistra marxista incapace, al di là delle scomuniche, di capire l’effettiva portata di alcune idee presenti in quel saggio filosofico.
vivere contro un muro
Camus, più che essere un politico – cosa del resto odiosa ai suoi occhi – era un “moralista”, un “santo senza dio”: limite e pregio: come riuscì a comprendere e fare propri i moti interiori di rivolta dell’uomo, così non ebbe però quella lucidità politica e storica capace di abbracciare con coraggio rivoluzionario la causa degli oppressi, quando questa non gli appariva chiara, nitida e conforme al suo schema. È il caso della completa incapacità, dimostrata dallo scrittore, di comprendere la lotta di liberazione nazionale del popolo algerino; essendo un “francese d’Algeria”, uno di quelli che vivevano in condizioni economiche difficili in questo paese denso di sole, così come non riusciva a giustificare gli “eccessi del colonialismo”, allo stesso modo gli pareva difficile comprendere la lotta armata degli algerini in termini politici, e per questo ne diede sempre un’interpretazione “umana” che però non coglieva i dati essenziali della situazione di sfruttamento e di oppressione. Ma l’impegno di questo scrittore non fu soltanto un impegno verbale. Dopo aver militato per circa 3 anni nelle file del partito comunista, distaccatosene, non perde tuttavia il contatto con l’ambiente della resistenza francese, impegnandosi in essa soprattutto come direttore del giornale clandestino Combat, giornale che arrivò a vendere più di centomila copie. Proprio su questo foglio clandestino apparvero i suoi articoli “politici”, che rispecchiano una visione del mondo aliena da qualsiasi contenuto finalistico o debordante verso una concezione storico-materialista della società.
E dell’incomunicabilità dovuta all’astrazione ideologica, della paura che essa arreca, delle false giustificazioni offerte dalla Storia, Camus tornerà a parlare ampiamente e più organicamente in uno dei suoi saggi più famosi: L’uomo in rivolta, del 1951.
la necessità della rivolta
Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice di no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. In questa costante e perenne oscillazione fra il no e il sì, l’uomo in rivolta di Camus si differenzia profondamente dal pensiero rivoluzionario ed ancor più dal concetto di rivoluzione. Se le rivoluzioni moderne non hanno fatto altro che instaurare degli stati e legittimare il potere del terrore, per l’autore dell’Uomo in rivolta è impossibile avere dubbi: o si accettano le conseguenze della rivoluzione, e quindi la paura, il sangue, lo Stato; oppure inevitabilmente vi si è contrari, non rinunciandovi ma riaffermando la possibilità della rivolta. Ma qual è, in pratica, la differenza tra rivoluzione e rivolta?
Sulle prime sembrerebbe che Camus scelga il concetto di rivolta, dandone un’interpretazione positiva rispetto alla negatività della rivoluzione, poiché l’uomo che dice no è l’eroe titanico che, affrontando il tiranno, il Potere, con il solo e unico gesto di rivolta si autorealizza emancipandosi. Ma limitare la distinzione tra i due concetti a questo sarebbe ingiusto nei confronti della tesi principale del libro: la necessità di relativizzare e limitare ogni nostro pensiero ed azione. In questa chiave interpretativa, e metodica per Camus, risiede la possibile (possibile, non “vera”) differenza; rivoluzione è intesa come totale negazione del reale, come un movimento che, superando lo status quo, lo nega in tutti i suoi aspetti perché li riconosce estranei; la rivolta, al contrario, è un moto che, pur superando le condizioni presenti, le accetta perché sono le uniche passibili di mutamento. Se la rivolta potesse fondare una filosofia, questa sarebbe al contrario una filosofia dei limiti, dell’ignoranza calcolata e del rischio. Chi non può sapere tutto, non può tutto uccidere.
Camus è un convinto assertore di questa filosofia, contrapponendosi duramente ed aspramente ad ogni concezione e interpretazione del mondo che assolutizzando qualsiasi concetto metafisico, come materialista, lo ponga e si ponga al di sopra del reale, perché, come già detto, la realtà non è né ragionevole né irragionevole, ma ciò che si può dire ed ancor più ciò che si può cambiare. L’uomo in rivolta è un vero e proprio compendio di storia del pensiero occidentale moderno, ad iniziare da Sade, Hegel, Marx fino ai contemporanei. In tutti questi filosofi, Camus individua un minimo comune multiplo: il nichilismo, qui inteso come degradazione, asservimento della realtà presente a favore di un immaginato futuro di verità cui poter donare la propria sofferenza in questa vita alienata. Grande ammiratore di Nietzsche – il quale paradossalmente è l’unico ad essere salvato dall’accusa di nichilista – non può che far risalire la negazione della natura e del corpo alla nascita del cristianesimo: con l’avvento del cristianesimo, nel pensiero occidentale si insinua il concetto di peccato e di espiazione, che successivamente inquinerà perfino il pensiero laico e rivoluzionario di Karl Marx.
La storia del pensiero occidentale è la storia della sconfitta della natura e dell’umiliazione del corpo per la vittoria dell’ideologia e della teologia, entrambe false coscienze che, in nome del futuro, hanno negato, condannato il presente. La domanda camusiana è dunque la seguente: quale motivo spinge l’uomo ad uccidere per dei valori astratti, delle ideologie? E ancora: perché, in nome della giustizia e della libertà, possono essere commesse le ingiustizie più atroci ed avvalorate le misure più repressive, totalitarie ed autoritarie?
La libertà assoluta coincide con il diritto, per il più forte, di dominare. Essa mantiene dunque i conflitti che avvantaggiano la ingiustizia. La giustizia assoluta passa attraverso la soppressione di ogni contraddizione: essa distrugge la libertà. La rivoluzione per la giustizia mediante la libertà finisce col farle insorgere l’una contro l’altra.
il rifiuto del marxismo
Sono questi temi cari alla metodologia anarchica, che da sempre ha posto la prassi della libertà come unico mezzo e fine e ha inteso la giustizia non come valore ma come litie e progettualità della libertà. In quanto a questo, l’opera di Albert Camus è un’opera con chiari e lampanti contenuti libertari, contenuti che non hanno la pretesa di essere dei valori assoluti, ma che formano la possibile teoria pratica per la liberazione dell’uomo; egli stesso contrappone il pensiero libertario, il pensiero meridiano – come lui ama chiamarlo – all’ideologia tedesca, che da Hegel a Marx e ai suoi strascichi leninisti ha avuto come solo e unico obiettivo l’efficienza nella presa del Potere. Questa efficienza sta alla base dell’ideologia marxista, in cui la liberazione, qui ed ora, delle immense possibilità umane è stata contrabbandata con una finalità storica che, invece di arricchire dialetticamente il presente dell’uomo attraverso la sua immaginazione utopica, lo umilia – riemerge così il concetto di espiazione del peccato – per consegnarlo inerme alla storia.
Per questo motivo Camus rifiuta il marxismo e il suo aspetto storicista e progressista: non vi può essere liberazione nella storia se prima non ci si libera della storia e di chi, in suo nome, afferma di liberarci. La rivoluzione deve avere come proprio limite la rivolta, affinché non appaia “la certezza di un nuovo governo”; per questo Camus assume la rivolta come l’unica possibile tensione verso la libertà e la giustizia, perché, non ponendo capo ad alcuno stato, ad alcuna dittatura in nome di…, ad alcuna Storia, essa permette di superarsi e di divenire ciò che si è. Ma Camus, nella sua requisitoria antitotalitaria, non risparmia le accuse neppure a Bakunin. Per quanto alcune di esse siano discutibili e in mala fede, non si può dar torto a Camus quando egli afferma che ogni assoluto è fonte di autoritarismo e totalitarismo – e non si può negare che da questo punto di vista Bakunin può andare soggetto a critiche più che legittime. L’uomo in rivolta è il libro più sofferto per la difficile ricerca intellettuale e per il vuoto creatosi intorno all’autore all’indomani della pubblicazione del libro, ma è anche il libro più interessante e vivo per le sue contraddizioni e i suoi incespicamenti, le sue verità e i suoi dubbi.
sogni e utopia
E adesso anche a noi viene qualche dubbio: saremo riusciti a rispondere a quella domanda iniziale che avevamo posto all’inizio – la maniera con cui Camus affronta il suo viaggio senza ritorno – e che ci sembrava tanto difficile? Una risposta indiretta ci sarebbe e proviene, manco a farlo apposta, da un brano dell’Uomo in rivolta: … quella sciagurata invidia che tanti uomini portano alla vita degli altri. Scorgendo dall’esterno queste esistenze, attribuiscono loro una coerenza e unità che in realtà non possono avere, ma che paiono evidenti all’osservatore. Questi non vede che la linea di cresta delle altre vite, senza prendere coscienza del particolare che le rode. Facciamo allora dell’arte su queste esistenze. In modo elementare, le romanziamo.
Perciò forse è ragionevole e giusto non mettersi a cercare una impossibile – perché inesistente – coerenza, un’impossibile unità nella vita e nell’opera di Camus; meglio rifarsi ai suoi sogni e alla sua utopia, che in definitiva coincidono con i sogni e l’utopia di tanti. Rivolta, libertà, diversità sono i mezzi e i termini di verifica (non il fine!) per realizzare questo nuovo, profondo umanesimo anti-ideologico, quella impossibile coerenza di fatti e di parole che, come un fiume violento e sensato, spezzi le dighe della Storia e del Potere per affluire liberamente nei limiti naturali (e sempre più cancellati) della Vita e della Morte, del Mondo e dell’Uomo.
BIBLIOGRAFIA
Lo straniero – Bompiani, 1947
Il mito di Sisifo – Bompiani, 1947
Il malinteso – Bompiani, 1947
La peste – Bompiani, 1948
L’uomo in rivolta – Bompiani, 1957
Il rovescio e il diritto, Nozze, L’estate – con il titolo: Saggi letterari – Bompiani, 1959
Caligola – Bompiani, 1960
I giusti – Bompiani, 1960
Lo stato d’assedio – Bompiani, 1960
Lettere a un amico tedesco, Cronache 1944-1948, Discorsi di Svezia – con il titolo Ribellione e morte – Bompiani, 1961
La morte felice – Rizzoli, 1971
Taccuini I, maggio 1935 – febbraio 1942 – Rizzoli, 1973