Il 2017 è l’anno del cinquantesimo anniversario della Summer of Love. In California si moltiplicano le iniziative per ricordare quella stagione di pace, amore e controcultura giovanile: in estate (data ancora da definire), nel Golden Gate Park di San Francisco si terrà un megaconcerto in stile anni Sessanta; al de Young Fine Art Museum di San Francisco è già stata inaugurata “The Summer of Love Experience: Art, Fashion, and Rock & Roll”, una grande esposizione multimediale con light shows psichedelici, film d’avanguardia, fotografie, videoclip e vestiti d’epoca; fino alla fine di maggio, sarà invece possibile approfondire la cultura hippie visitando la mostra “Hippie Modernism” all’Art Museum di Berkeley, la città dove scoppiò la prima rivolta universitaria già nel 1964. È paradossale che il revival della filosofia “peace & love” avvenga mentre il presidente Trump mostra i muscoli e in America soffiano nuovi venti di guerra. Proprio per questo, però, ripercorrere le tappe fondamentali di ciò che accadde 50 anni fa nella “terra dei sogni”, può assumere oggi un significato politico.
I primi fermenti culturali e politici di quella che sarebbe diventata la Summer of Love si manifestarono ben prima del 1967, in molte città della California. Nel 1966, in un saggio intitolato “I ribelli ci salveranno”, il grande scrittore californiano John Steinbeck scrisse: «Il mondo è aperto dinanzi a noi come mai lo fu nel passato. La rivolta è ovunque nell’aria: nelle lunghe estati calde, nel risentimento contro l’ineguaglianza, contro la cinica crudeltà. C’è una rabbia sorda contro ogni ostacolo, ogni ritardo, contro la lunghezza stessa di questa fase in cui ci prepariamo a partire per il gran viaggio. Sarà il viaggio forse più lungo, più scuro di quanto mai ne facemmo: ma al suo termine avrà la luce più vivida». Gli ostacoli sul cammino verso la luce dell’Estate dell’amore, in effetti, erano ancora tanti: in primo luogo una guerra insensata che gli States stavano combattendo in Vietnam contro il volere di molti americani; poi la frattura generazionale che si era venuta a creare tra padri e figli, tra i valori tradizionali di patria e famiglia sostenuti dai più anziani e i ragazzi dei Sixties che di quei valori non sapevano più cosa farsene. Nel 1965 il folk singer Phil Ochs aveva inciso un disco dal titolo inequivocabile, “I Ain’t Marching Anymore” (Non marcerò più), nel quale cantava: «Guarda tutto ciò che abbiamo conquistato con la sciabola e il fucile e dimmi se è servito a qualcosa». Gli adulti americani, intorno alla metà degli anni Sessanta, erano paradossalmente spaventati proprio dai nuovi ideali di pace e amore di cui i giovani si facevano interpreti. Mal sopportavano, inoltre, il loro tentativo di sfuggire dalla società conformista traendo coraggio proprio dalla musica, che, infatti, diventò il collante di tutte le frange del movimento d’opposizione: gli hippies, gli esponenti della Nuova sinistra americana, il Movimento per i diritti civili e gli ultimi beat, che per primi avevano piantato i semi della rivolta in California un decennio prima.
Il pop (come più genericamente si definiva allora la musica rock) divenne il flusso sonoro di sottofondo del fenomeno che Theodore Roszak definì “controcultura”. Nel suo libro “Nascita di una controcultura” (uscito nei primi mesi del 1969), Roszak ha sintetizzato il pensiero dei principali artefici della cultura di opposizione al mainstream tecnocratico: dal marxismo eretico di Marcuse alla psicanalisi di Norman Brown, che vedeva nell’eros una forza di liberazione; dalle spinte beat di Ginsberg a quelle mistico-orientaleggianti di Alan Watts; dalle utopie urbanistiche di Paul Goodman a quelle lisergiche di Timothy Leary. La sua analisi sociologica non si limitava a una ricapitolazione dei processi formativi: suggeriva anche un percorso alternativo alla logica del pensiero occidentale; auspicava la riacquisizione degli istinti primitivi irrazionali in grado di rendere l’uomo nuovo immune al canto delle sirene capitalistiche. Più concretamente, Roszak vedeva raffigurato nello stile di vita dell’hippie (portatore sano del virus controculturale) l’effige rivoluzionaria della politica dell’interiorità. Le abitudini giovanili che infastidivano la cultura dominante americana erano esemplificate dall’emergente comunità di Haight-Ashbury, il quartiere di San Francisco che, intanto, aveva scalzato North Beach nella classifica dei luoghi di culto cari alla nuova generazione. Chi non trovava casa nel vecchio centro poteva facilmente trovarne una in quel distretto occidentale quasi disabitato.
Mentre Hollywood si rinnovava radicalmente con film come “Gangster Story” di Arthur Penn e “Il laureato” di Mike Nichols e al Fillmore Auditorium di San Francisco andava in scena lo spettacolo psichedelico multimediale di Andy Warhol “Exploding Plastic Inevitable”, in meno di un anno – dal 1966 al 1967 – Haight-Ashbury divenne la capitale del rinnovamento in tutti i campi: politico, sociale, sessuale, culturale. Perfino Ronald Reagan, che era diventato governatore della California perseguitando i capelloni, promettendo di «ripulire il casino nelle università» e dichiarando guerra all’uso dell’Lsd, non riuscì a smantellare quella enclave hippie che stava sperimentando per la prima volta forme di comunitarismo anarchico. Nei lunghi mesi dell’estate dell’amore, a Haight-Ashbury si trasferirono più di centocinquantamila giovani provenienti da ogni parte degli Stati Uniti; e con loro arrivarono anche turisti, fotografi, cineasti, artisti, e, ovviamente, poliziotti in borghese e agenti dell’FBI.
Proprio lì, la mattina del 14 gennaio 1967, scoppiò la Summer of Love: anche se, per la verità, era inverno! I poeti Allen Ginsberg e Gary Snyder, stabilendo una forma di continuità tra i vecchi beat e nuovi hippie, guidarono una marcia della pace fino al Golden Gate Park, dove un giornale underground, The Oracle, aveva preparato un evento senza precedenti: The Human Be-In, un megaraduno di tutti gli alternativi della Bay Area, compresi alcuni musicisti, popolari tra gli abitanti della zona, ma ancora poco noti nel resto del paese. In pratica, aveva accettato di esibirsi gratis tutta la nuova leva pop della città del Pacifico: dagli psichedelici Grateful Dead e Jefferson Airplane ai comunisti Country Joe and the Fish; dai Big Brother and the Holding Company (il primo gruppo di Janis Joplin) fino agli acidi Quicksilver Messenger Service. Rick Griffin, famoso per i suoi poster psichedelici, preparò per l’occasione un manifesto pubblicitario al centro del quale era raffigurato un guerriero pellerossa che imbracciava una chitarra, e con una scritta che correva tutta intorno: «Portate foto di guru e degli eroi dell’underground, portate bambini, fiori, flauti, mandarini, incenso, campanelli, vestiti fantasiosi e gioia». A inaugurare la manifestazione c’erano anche Lawrence Ferlinghetti e il dottor Timothy Leary, che per l’occasione rispolverò uno slogan coniato l’anno precedente per lanciare il suo Lsd: «Turn on, Tune in, Drop out» (Accenditi, sintonizzati, estraniati), un’incitazione all’uso degli acidi, ma che voleva anche suggerire ai giovani di accendere le forze interiori, sintonizzarsi col mondo circostante trovando il modo di esprimersi, e, infine, di estraniarsi dalla società dei consumi. Presentando la manifestazione, Allen Cohen, direttore dell’Oracle, scrisse: «Con grande entusiasmo, in California sta finalmente per avere luogo un’unione tra amore e attivismo politico». The Human Be-In fu il primo raduno a richiamare un numero consistente di persone (circa ventimila), e a comunicare all’esterno tutto ciò che fino a quel momento era rimasto nell’underground. Fu un tentativo politicamente confuso, e per certi versi velleitario, tuttavia fu un tentativo, e qualcosa smosse. L’evento svegliò le grandi case discografiche (Columbia, Rca, Elektra, Capitol) e fece intuire che si potevano ricavare profitti anche producendo suoni underground e psichedelici. Inoltre, spianò la strada ai megaraduni pop, il cui prototipo perfetto si sarebbe realizzato a qualche chilometro di distanza da San Francisco, nella città di Monterey.
Nel pieno di quella che ormai tutti riconoscevano come l’Estate dell’amore (mentre in altre città degli Stati Uniti scoppiavano le rivolte dei neri), nei giorni tra il 16 e il 18 giugno del 1967, Monterey divenne il luogo simbolo della sintesi controculturale californiana. Al Monterey Pop Festival, artisti e pubblico, confusi dal medesimo fumo psichedelico, provarono a mettere in scena il sogno (e l’ossimoro) di una rivoluzione pacifica. La musica bianca e quella nera, l’Occidente e l’Oriente condivisero lo stesso palco e lo stesso pubblico: si esibirono Janis Joplin e Hugh Masekela, i Jefferson Airplane e Ravi Shankar, i Mamas & Papas e Jimi Hendrix. Monterey fu l’ultima fermata di un percorso di frontiera lungo e tortuoso, e, al tempo stesso, un crocevia dal quale si dipanarono nuovi itinerari che avrebbero esteso la Summer of Love almeno fino alla fine degli anni Sessanta, nonostante qualcuno l’avesse già dichiarata ufficialmente defunta nell’ottobre del 1967.
Alcuni anni fa intervistai Bill Thompson, manager dei Jefferson Airplane, una delle figure più influenti della scena musicale californiana degli anni Sessanta. Gli chiesi di raccontarmi in breve la sua Summer of Love. Mi rispose che per lui il momento che aveva segnato l’apice di quella irripetibile stagione di “pace, amore e musica” si era svolto proprio nel backstage del Monterey Pop Festival e aggiunse: «Jimi Hendrix, poco prima di esibirsi, si fermò a salutarmi e mi chiese un’altra pasticca di Lsd. Era pronto, imbracciava già la sua chitarra: aprì la bocca, e non potei fare altro che appoggiargli la pasticca sulla lingua. Poi salì sul palco, e fece la storia». A Monterey, Hendrix celebrò con allegria il funerale della forma-canzone e diede il benvenuto all’improvvisazione, alla jam session sperimentale, con lui la performance live si liberò di ogni ingessatura. Conquistò un nuovo spazio scenico con la forza di un corpo rock capace non solo di suonare la chitarra elettrica come non si era mai visto prima, ma anche di farci l’amore, incendiarla, per poi farci di nuovo la pace. Dopo la sua memorabile esibizione, un giornalista scrisse: «Hendrix è stupefacente, spero proprio che arrivi per primo sulla Luna». Hendrix sulla Luna non ci arrivò mai; morì, anzi, di lì a poco. Ma qualcun altro quel viaggio lo fece davvero. Ecco, se la Summer of Love californiana di 50 anni fa ci ha lasciato qualcosa, è proprio il desiderio, come diceva Steinbeck, di poterci sempre preparare per un gran viaggio.