La breve intervista che segue è l’estratto di un lungo colloquio avuto con Stelvio Cipriani durante un intero pomeriggio a casa sua. Era la seconda volta che incontravo Stelvio, l’avevo conosciuto qualche giorno prima in occasione di un suo concerto tenuto all’Auditorium di Roma. Poiché un mare di domande erano rimaste impronunciate sul mio taccuino, mi congedò con la promessa di rivederci. I reciproci impegni congiuravano ad un nuovo incontro, ma ci sentivamo spesso, era diventata una gradevole consuetudine raccontarci quel che facevamo, credo che anche lui aspettasse con ansia le mie telefonate, che rinsaldavano una densa simpatia reciproca. Mi parlava dei progetti che aveva in mente, di come passava le giornate, spesso riaffioravano ricordi sapidissimi, che non ho fermato su nastro ma che ho scolpiti nella memoria. Era un uomo sempre proiettato nel futuro, verso ciò che sentiva di dover ancora fare. Un grande insegnamento, come la salda, sapiente modestia che aveva, malgrado tutto ciò che aveva conquistato. Poi, un giorno di fine dicembre dello scorso anno, al suo telefono ha risposto il figlio, Massimo. Stelvio aveva avuto un malore. Ho provato nel tempo a richiamare, le risposte si diradavano. Il destino era segnato.
E’ stata un’amicizia breve ma intensa. Porterò sempre nel cuore la sua trascinante simpatia, l’intelligenza, lo sguardo acuto e il sorriso bonario, l’ironia del suo sapido raccontare, il calore umano d’una romanità ormai scomparsa. Ti sia lieve la terra, Stelvio.
Com’è nata in lei la passione per la musica?
All’oratorio. Intonavamo delle litanie per le vecchiette che seguivano la funzione: Kyrie eleison, Ora pro nobis, Stella matutina, Salus infirmorum, ed ero affascinato dalle mani del prete che suonava l’organo, ne memorizzavo i movimenti, come in un gioco. Un giorno che lui non c’era mi offrii di suonare. Lui poi lo venne a sapere, e andò a parlare con i miei genitori, stupito dal mio talento. I miei mi mandarono a lezione da una pianista, poi m’iscrissi al Conservatorio. Mi diplomai anche in ragioneria, trovai lavoro in una ditta e intanto studiavo musica e suonavo con un gruppo in un locale romano. Una sera un impresario ci notò e ci offrì si suonare sulle navi da crociera. Fu così che a New York incontrai Dave Brubeck, al Birdland. Dopo l’esperienza sulle navi andammo a fare subito la seconda orchestra con Peppino di Capri, all’Oliviero, qui a Roma, uno dei locali più in del’epoca. Poi sono entrato alla CAM.
Dove ha conosciuto Rita Pavone.
Sì, diventai il suo pianista, per quanto giovane dirigevo l’orchestra che l’accompagnava, un’idea di Teddy Reno. Abbiamo girato il mondo, un successo strepitoso. Era il 1962. A Rio de Janeiro incontrai Carlos Jobim: una rivelazione. Poi entrai alla Ricordi.
Fu lì che lanciò Lucio Battisti?
Lo segnalai a Vincenzo Micocci. E tra i tanti, anche Mino Reitano.
Come ha cominciato a comporre colonne sonore?
Per caso. Era il 1966, alla Ricordi conobbi Tomas Milian, aveva girato un film in Spagna e mi propose di scrivere un deguello. Il film era Bounty Killer. Poi venne il secondo film, Un uomo, un cavallo e una pistola, Henry Mancini ne incise il tema e vendette un milione di copie. Io incassai quattordici milioni, quando arrivò l’assegno mia moglie svenne.
E nel 1970 Anonimo veneziano. Come andò?
Le musiche erano già state composte, registrate e montate, ma non piacevano. A suggerire il mio nome furono il produttore, Turi Vasile, e il responsabile della colonna sonora della CAM, Giuseppe Giacchi, un produttore, aveva fatto dei film con Fellini e Nino Rota, aveva lavorato con Morricone, ecc. Mi chiamarono all’una e mezza di notte, i tempi erano stretti avevano preso impegni con la distribuzione.
Lei ha conosciuto anche Orson Welles, vero?
Sì, mi chiamò per un film americano. Usai uno pseudonimo, Steve Powder. Powder, in inglese ‘cipria’, da Cipriani. Un gran personaggio, in tutti i sensi. Straordinario bevitore, è stato ospite a casa nostra, all’epoca vivevo con Antonella Lualdi. Ho lavorato anche con James Cameron, ho musicato il suo primo film, Piranha paura. Siamo stati una settimana qui da me, tutto il giorno, la sera lo accompagnavo in albergo. Abbiamo fatto un bel lavoro. Voleva che musicassi un progetto a cui stava lavorando, ma io non volli stabilirmi in America: avevo famiglia, dovevo lavorare, non potevo stare due anni lì. Il film era Titanic.
Senta, lei ha scritto oltre duecento colonne sonore. Sono più quelle che ricorda, o che non ricorda?
No, no. Quelle che ricordo.
Mi parla della sua esperienza nei film polizieschi all’italiana?
Nel 1971 stavano girando uno dei primi del genere, che era l’equivalente metropolitano dei film western di Sergio Leone: La polizia ringrazia, di Steno, il papà dei Vanzina. Fu il primo film in cui si firmò Stefano Vanzina. L’anno dopo uscì La polizia sta a guardare, di Roberto Infascelli, entrambi con protagonista Enrico Maria Salerno, il terzo anno, La polizia chiede aiuto, di Massimo Dallamano, e il quarto anno La polizia ha le mani legate, di Luciano Ercoli. Quattro anni, quattro film: io ho un collega che prima di me fece una tetralogia… si chiamava Wagner. Io modestamente ho fatto la mia tetralogia.
Poi ha lavorato con Mario Bava.
Certo. Ho musicato Ecologia del delitto, e in seguito Il castello di Norimberga. In quel periodo furoreggiavano i film di genere, horror, polizieschi, thriller-gialli, erotici, ne ho musicati un bel po’. Ho lavorato con Lucio Fulci, Lizzani, Stelvio Massi, e tanti altri.
Oltre ai registi, frequentava anche gli attori dei film che musicava?
Di solito no. Ma ero grande amico di Maurizio Merli. E’ morto giovanissimo, a quarantanove anni. Era una brava persona, seria, onesta: un uomo vero, dài.
Tornando ai registi, lei ha lavorato anche con Dino Risi.
Una grande esperienza. L’ho incontrato verso la fine della sua carriera, lui era di un’altra generazione, aveva lavorato con tutti, con i musicisti della generazione precedente alla mia, con Armando Trovajoli, Riz Ortolani, Piero Piccioni, quelli lì. Mi fece chiamare e mi parlò del film Vita coi figli, [Miniserie TV in due puntate, andata in onda nel maggio del 1991 su Canale 5], protagonista Giancarlo Giannini, e Monica Bellucci, allora esordiente. Lo produssero i fratelli Vanzina. Trovavo molto coinvolgente la trama del film, quasi un parallelismo preciso, netto, con la mia vita. Mi sentivo molto coinvolto.
Credo che lei vada molto fiero del suo particolare rapporto con i papi, vero?
Sì, è una cosa così i miei colleghi non possono vantare. Ho composto e diretto una Messa dedicata a Giovanni Paolo II, Il tema di Carol, mi è stato concesso di fare io una dedica a un santo. Poi ho conosciuto papa Bergoglio, a Buenos Aires, quando era Arcivescovo. In seguito, l’ambasciata italiana e l’Annunziatura di Buenos Aires mi commissionano una musica per papa Francesco, e così compongo il Tema di Francesco. Lui lo viene a sapere, si ricordava di aver ascoltato Il tema di Carol a Buenos Aires, e poiché quel titolo l’avevo già usato per il suo predecessore, e avrei eseguito la nuova composizione il 21 settembre, l’inizio della primavera in Argentina, ha suggerito tramite l’Annunziatura un nuovo titolo: La primavera di Francesco. Il titolo l’ha dato lui.
Insomma, è soddisfatto della sua vita?
Be’, qualcosa abbiamo fatto. Ma non bisogna mai prendersi troppo sul serio.