Nel dibattito necessario sui fascisti al Salone del libro di Torino che dopo defezioni/partecipazioni/distinguo rischia di assumere il profilo di una Linea gotica tra buoni e cattivi, forse vale la pena riattivare – ancora una volta – la memoria. Non farsi prendere dalla fretta, dallo sgomento, dall’apoteosi dei post.
E dire. Ribadire. Non vale sempre e soltanto una chiamata all’indignazione che è sì importante ma che si concluderà – temiamo – quando le luci si spegneranno al Lingotto. Vale il quotidiano. E mai come in quest’ultimo anno scrittori, poeti e intellettuali hanno frapposto le loro parole e i loro corpi alla mefitica onda xenofoba, fascista, che sta divorando la nostra Repubblica, l’idea stessa di Paese.
In questo anno scandito dall’intolleranza, da sprazzi di Medioevo, dai diktat dai balconi, dalle ronde nere, si sono moltiplicati presidi di Resistenza. I poeti, ad esempio. I poeti che con i loro versi, la loro presenza in corpore a Roma Tiburtina si sono opposti allo sgombero dei migranti del Baobab. Maria Grazia Calandrone, una delle voci più potenti e liriche, era lì a dire no. Era a scrivere ai vertici del Campidoglio: “Vi chiediamo, a nome del diritto naturale dell’umanità, di individuare e concedere al più presto uno spazio sicuro per i migranti transitanti, perché trovino almeno un momento di riposo presso di noi, nel loro durissimo viaggio verso la pace. Sono sopravvissuti a orrori e perdite che immaginiamo a stento. Hanno paura, sono soli. Cercano altrove la vita alla quale hanno diritto, perché il loro paese non gliela concede. Non hanno colpa, sono costretti a chiedere. E, per questo piccolo tratto di strada, sono consegnati alle vostre mani.Non chiudete gli occhi, non chiudete le mani. Fate che ricordino la nostra città come un luogo che li ha accolti e compresi. Una sosta, un momento di respiro”.
I poeti che hanno recitato i loro versi all’Angelo Mai e per Mimmo Lucano.
Gli scrittori che al pari di “scudi umani” sono saliti sulle navi delle Ong nel Mediterraneo rispondendo all’appello di Sandro Veronesi, per testimoniare la mattanza dei migranti nel Mare nostrum.
Gli uomini e le donne di teatro che hanno percorso, come Fabrizio Gifuni, la polvere ghiacciata del lager nazisti mano nella mano con gli ultimi sopravvissuti della Shoah, recitando Primo Levi ad Auschwitz, raccontando l’orrore imperituro a centinaia di giovani studenti.
I musicisti che hanno suonato sui palchi dell’Anpi, il 25 aprile, in tutta Italia per una corale “Bella Ciao” . E che ogni giorno suonano per dare voce agli ultimi. I musicisti dei Tetes de Bois che hanno pedalato per dare energia al palco di Greta e dei ragazzi di #fridayforfuture.
E poi i registi, le registe, gli illustratori, i disegnatori.
Il costante lavoro delle Biblioteche, l’incessante opera dei circoli di lettura.
In pochi si sono voltati dall’altra parte.
Sono presidi di presenza/Resistenza diffusi, che si automoltiplicano senza riflettori, spesso in solitudine. Spinte dal basso quotidiane.
Domani, ad esempio, a Roma dalle 16 alle 18 in via delle Palme 150 ci sarà una staffetta di letture con i pochi libri sopravvissuti al rogo della Pecora elettrica, libreria di Centocelle, incendiata da ignoti. Sfregio? Ritorsione? Non sappiamo. L’unica certezza è che il fuoco è stato appiccato e che bruciare i libri è una pratica infame. Una vecchia pratica scellerata che riporta alla mente i falò dei nazisti, la Bücherverbrennungen del 1933, la violenza dei regimi golpisti in Cile e in Argentina, i testi dati in fiamme dall’Isis per cancellare secoli di sapienza.
E allora con un testo di Calvino – “Il Barone rompante”, dalla copertina bruciacchiata – leggeremo. Perché gli unici valori che che ci rimangono, in questi anni tanto affollati, siano ancora la cultura, il sapere, la speranza e la solidarietà
Il Barone di Calvino e quel passo che recita: “Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori!”.
Ecco, nulla resti fuori. Nulla vada perduto. Mai l’identità di un Paese che sa ancora dire no.