Siamo ritornati a desiderare la competenza degli esperti: a leggere i giornali è, questa, una tra le poche novità “politiche” positive dovute all’emergenza Covid-19. Per il resto, e soprattutto in Italia, è il solito bestiario di grossolanità, strumentalizzazioni, pose retoriche, ecc. È lecito chiedersi se questa rappresentazione dilemmatica del campo politico sia realistica o non sia, piuttosto, essa stessa il frutto di una specifica Weltanschauung?
A me pare che la visione del mondo sottesa a tali speranze palingenetiche sia di matrice prettamente tecnocratica; una visione che poggia sull’idea del primato epistemologico dei saperi specialistici in ogni campo dello scibile.
Ma si può essere “specialisti” della politica? Ovvero, la politica è mera téchne (gestione) o qualcosa di più? Come avrebbero detto gli scotisti medievali, qual è l’ecceità della politica?
L’impetuosa trasformazione sociale seguita al 1968 ha spodestato gli intellettuali dalla loro torre d’avorio, costringendoli a scendere nel regno della comunicazione di massa, a dipendere dal flusso ininterrotto delle informazioni e soprattutto dal consenso popolare. Sono ormai scomparsi dalla scena quelli che una volta erano gli intellettuali indipendenti non accademici, il cui engagement militante comportava l’assunzione di responsabilità politiche latu sensu, quelle proprie a chi ancora scommetteva tutta la propria vita su senso critico e desiderio di «dire la verità» al potere. La sparizione di queste fondamentali figure di sentinelle della democrazia, per le nostre società aperte e tolleranti, è stata altrettanto deleteria della decadenza della comunicazione politica a raglio incessante e “cinguettio” tanto stupido quanto spietato dei nostri tempi.
Il vuoto che si è spalancato tra potere e popolo è stato occupato dai neointellettuali, giornalisti, opinion maker, consulenti di comunicazione, esperti di media digitali, che hanno trasformato la polis in mercato di idee fondamentalmente fungibili e analoghe, in una partnership apparentemente conflittuale del grande Circo Barnum massmediatico, incaricato di rappresentare/intrattenere le opposte fazioni di un gioco retorico estenuante e vacuo.
La dialettica politica si è così svuotata di verità, la nobile presa di parola è divenuta flatus vocis di capitano di popolo incattiviti o rassegnati, abbrutiti o acquiscenti, e comunque mai realmente disposti a confrontarsi con il problema delle trasformazioni sociali, delle diseguaglianze economiche, e della fedeltà agli ideali repubblicani e democratici di giustizia sociale, libertà (non solo negativa) e diritti civili. In Politics and the English Language, George Orwell, nel lontano 1946, parlava di graduale usurpazione del cervello dei suoi connazionali da parte della politica demagogica: «Il linguaggio politico, e questo vale con sottili varianti per tutti i partiti, dai conservatori agli anarchici, è costruito in modo da far apparire le menzogne veritiere e il crimine rispettabile, e per conferire una parvenza di fondatezza alla vacuità assoluta».
Gli “arresti domiciliari” di queste ultime settimane mi hanno portato a rileggere alcuni classici, tra cui un testo cruciale per comprendere la problematicità del nesso tra potere e verità: si tratta di un volumetto pubblicato nei primi anni Novanta da Edward W. Said, intitolato Dire la verità. Gli intellettuali e il potere. Nel 1994, il letterato palestinese s’interrogava fondamentalmente su sé stesso: che ruolo gli toccava nella società contemporanea? A suo parere, l’intellettuale avrebbe dovuto smettere di considerarsi un professionista (della comunicazione o di qualunque altra attività) poiché «a ben vedere, il concetto di “esperto” ha poco a che fare con la conoscenza»: Noam Chomsky, a proposito della guerra in Vietnam, avrebbe fornito materiale più verosimile, pertinente ed esaustivo (“professionale”?) dei cosiddetti esperti accreditati dal mainstream. Ciò vuol dire che dovremmo preferire i ciarlatani ai competenti? Assolutamente no. Piuttosto, che dovremmo cominciare a pensare alle nostre professioni come attività del dilettante, cioè di colui che trae diletto da ciò che fa, poiché ciò che fa trae alimento dalla responsabilità e dalla passione, anziché dal «profitto e l’egoistica, augusta specializzazione».