Noi ebrei, schiavi degli schiavi: Primo Levi, testimone dell'orrore dell'Olocausto
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Noi ebrei, schiavi degli schiavi: Primo Levi, testimone dell'orrore dell'Olocausto

Nacque a Torino il 31 luglio del 1919. Se questo è un uomo e La tregua sono due tra le più importanti opere che narrano l'infamia e l'assenza di umanità del nazismo

Se questo uomo è il libro di Primo Levi che testimonia l'Olocausto
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27 Gennaio 2021 - 12.39


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Primo Lavi nacque il 31 luglio del 1919 a Torino. Lo ricordiamo con un brano tratto da “Se questo è un uomo”

 

di Primo Levi

 

La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana.
Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è più semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera.

Di altro, ora, non ci curiamo. Dietro a questa meta non c’è, ora, altra meta Al mattino, quando, in fila in piazza dell’Appello, aspettiamo senza fine l’ora di partire per il lavoro, e ogni soffio di vento penetra sotto le vesti e corre in brividi violenti per i nostri corpi indifesi, e tutto è grigio intorno, e noi siamo grigi; al mattino, quando è ancor buio, tutti scrutiamo il cielo a oriente a spiare i primi indizi della stagione mite, e il levare del sole viene ogni giorno commentato: oggi un po’ prima di ieri; oggi un po’ più caldo di ieri; fra due mesi, fra un mese, il freddo ci darà tregua, e avremo un nemico di meno.
Oggi per la prima volta il sole è sorto vivo e nitido fuori del l’orizzonte di fango. È un sole polacco freddo bianco e lontano, e non riscalda che l’epidermide, ma quando si è sciolto dalle ultime brume un mormorio è corso sulla nostra moltitudine senza colore, e quando io pure ho sentito il tepore attraverso i panni, ho compreso come si possa adorare il sole. – Das Schlimmste ist vorüber , – dice Ziegler tendendo al sole le spalle aguzze: il peggio è passato. Accanto a noi è un gruppo di greci, di questi ammirevoli e terribili

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ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, così determinati a vivere e così spietati avversari nella lotta per la vita; di quei greci che hanno prevalso nelle cucine e in cantiere, e che perfino i tedeschi rispettano e i polacchi temono. Sono al loro terzo anno di campo, e nessuno sa meglio di loro che cosa è il campo; ora stanno stretti in cerchio, spalla a spalla, e cantano una delle loro interminabili cantilene.
Felicio il greco mi conosce: – L’année prochaine à la maison! – mi grida; ed aggiunge: – … à la maison par la Cheminée! – Felicio è stato a Birkenau. E continuano a cantare, e battono i piedi in cadenza e si ubriacano di canzoni.
Quando siamo finalmente usciti dalla grande porta del campo, il sole era discretamente alto e il cielo sereno. Si vedevano a mezzogiorno le montagne; a ponente, familiare e incongruo, il campanile di Auschwitz (qui, un campanile!) e tutto intorno i palloni frenati dello sbarramento. I fumi della Buna ristagnavano nell’aria fredda, e si vedeva anche una fila di colline basse, verdi di foreste: e a noi si è stretto il cuore, perché tutti sappiamo che là è Birkenau, che là sono finite le nostre donne, e presto anche noi vi finiremo: ma non siamo abituati a vederlo.
Per la prima volta ci siamo accorti che, ai due lati della strada, anche qui i prati sono verdi: perché, se non c’è sole, un prato è come se non fosse verde. La Buna no: la Buna è disperatamente ed essenzialmente opaca e grigia. Questo sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo è la negazione della bellezza. Le sue strade e i suoi edifici si chiamano come noi, con numeri o lettere, o con nomi disumani e Sinistri. Dentro al suo recinto non cresce un filo d’erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone e del petrolio, e nulla è vivo se non macchine e schiavi: e più quelle di questi.
La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli stranieri abitano in vari Lager, che alla Buna fanno corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi, il Lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari, e altri che noi non conosciamo. Il nostro Lager (Judenlager, Vernichtungslager, Kazett) fornisce da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le nazioni d’Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e il nostro nome è il numero che portiamo tatuato sul
braccio e cucito sul petto.

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