Le canzoni di Sanremo come tremila bolle blu
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Le canzoni di Sanremo come tremila bolle blu

Raccontare Sanremo per raccontare l’Italia. L’Italia paese senza regole, paese poco normale. Come le sue canzoni, vivaddio.

Mina a Sanremo
Mina a Sanremo
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Giancarlo Governi Modifica articolo

2 Marzo 2021 - 19.00


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“…Le canzoni sono come lievi bolle blu, che gli occhi seguono sognando. Poi scoppiano, si dissolvono… Altre ricominciano a volare…”

Era questo l’assunto di Mille bolle blu, titolo con il quale il sottoscritto collezionò negli anni ’80 un programma di successo, che ribaltava l’atteggiamento di considerare le canzoni del Festival di Sanremo un prodotto di basso profilo, per valutarle invece come parte della storia del costume italiano, nel bene e nel male. Mille bolle blu che hanno accompagnato – talora anticipandola – la nostra storia, i nostri sentimenti, i nostri sogni, magari le nostre indignazioni, i moti di rivolta, la voglia di cambiamento.

Nel 2021 il Festival avrà 71 anni. Non è solo una scadenza e neppure solamente un compleanno. È l’occasione di un bilancio, che però si dipana in un momento molto critico per l’Italia e per il mondo. Un teatro Ariston senza pubblico e la paura del diffondersi del contagio saranno gli elementi che faranno di Sanremo una occasione speciale. Era giusto farlo quest’anno o non conveniva sospenderlo? Ci ho pensato a lungo e poi ho detto abbiamo bisogno di reagire con tutte le precauzioni. 
Questi settantun anni varrebbe la pena ripercorrerli tutti, mutando quel Mille bolle blu in DUEMILA… TREMILA BOLLE BLU, riascoltando le canzoni, il loro legame con la realtà del tempo, svelandone trucchi e ingenuità. Perché dire Festival vuol dire 3000 parole d’amore, 3000 carezze, 3000 menzogne, 3000 esaltazioni, 3000 lacrime, 3000 baci, 3000 schiaffi, 3000 tradimenti… Vuol dire l’Italia contadina di Grazie dei fior e di Corde della mia chitarra, l’Italia che vuole prendere quota di Volare, l’Italia che sciopera di Chi non lavora non fa l’amore, l’Italia dell’emigrazione di Che sarà e Ciao amore ciao, l’Italia pop di Acqua azzurra acqua chiara di Battisti, l’Italia del “partigiano Presidente” di Toto Cutugno, l’Italia degli stili nuovi, l’Italia dei travestimenti e l’Italia delle meteore… E vuol dire anche 3000 cantanti, ragazzi e ragazze pescati tra caramellaie e garzoni di fornaio, tra professionisti che si erano fatti le ossa durante l’Italia occupata, quando incidere con Angelini era una avventura e cantare con Ferrari era respirare aria di libertà riconquistata. Che realtà diversa, oggi: i talent show che hanno sostituito i concerti, tastiere elettroniche per farsi le canzoni in casa e portarle poi all’Ariston, piattaforme nuove che ora si sono aperte e sono diventate una grande realtà. Vuol dire anche imposizioni delle case discografiche, le quali d’altra parte badano a far quadrare i conti e non possono salvare la nostra coscienza desiosa di cultura. Ma poi: Ramazzotti che dalle borgate arriva alla Carnegie Hall, Bocelli che dal buio della sua condizione arriva alle grandi luci della ribalta internazionale, come Laura Pausini che vince addirittura un Golden Globe. E invece quanti sogni infranti, quante partenze lanciate che, come bolle blu, si sono poi dissolte nel giro di una stagione… Crudele, spietato, salutare Sanremo che è come la giungla e solo chi ha artigli di ferro ne esce, alla lunga, da vincitore.

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Ecco, raccontare Sanremo per raccontare l’Italia. L’Italia paese senza regole, paese poco normale. Come le sue canzoni, vivaddio. Che però, come diceva qualcuno, sono più nobili di mille pensieri alati. E anche Sanremo come unico esempio vivo e vivace di televisione generalista nazionalpopolare, in un’epoca che ha frantumato, fino all’inverosimile i media e i messaggi e dove l’occasione per stare insieme sono diventate cosa rara.

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