Vi spiego perché il mio invito è: chiamatele e chiamatevi “direttrici d’orchestra”
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Vi spiego perché il mio invito è: chiamatele e chiamatevi “direttrici d’orchestra”

Dovremmo investire sulla nostra ricchezza linguistica e farla “fruttare”. Perché quella declinazione femminile può aprire un mondo di opportunità a chi ascolta

Beatrice Venezi
Beatrice Venezi
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7 Marzo 2021 - 15.47


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di Ilaria Giani* 

Chiamatemi ‘direttore d’orchestra’

La sera del 5 marzo Beatrice Venezi, direttrice ospite principale dell’ORT (Orchestra della Toscana) e co-conduttrice del Festival di Sanremo 2021, ha affermato dal palco dell’Ariston che vuole essere chiamata “direttore d’orchestra”, al maschile. Una frase che a mio avviso sarebbe insindacabile se fosse stata presentata come una scelta personale (molte persone transgender lo fanno). Ma lei ha puntato più in alto: ha sostenuto che sia giusto chiamare tutte le donne che dirigono “direttori” e ha lasciato intendere, senza possibilità di replica da parte loro, che gli orchestrali e le orchestrali presenti fossero d’accordo, screditando di fatto tutte quelle professioniste della musica che si declinano al femminile.

Estrema ingenuità? O la tattica del “purché si parli di me”?
Al di là di motivazioni e polemiche, sarebbe bello trasformare questa affermazione infelice in uno spunto per una riflessione che vada un po’ oltre le “risposte di pancia”. Ci provo.

“Art is sexless”, in che senso?

Per motivare la sua scelta Beatrice Venezi ha detto che conta il talento, non il modo in cui si viene chiamati, e che ogni professione ha un nome e nel suo caso è direttore d’orchestra. Insomma, il mestiere è il mestiere, non conta chi lo fa, ma come lo fa. Questa argomentazione di primo acchito potrebbe suonare convincente e inclusiva.
Mi torna in mente a tal proposito l’affermazione “Art is sexless” di Antonia Brico, la direttrice d’orchestra statunitense che intraprese nella prima metà del Novecento una breve battaglia contro il maschilismo nel mondo della musica eurocolta (comunemente detta classica).

Cosa fece? All’epoca era talmente insolito vedere delle donne che esercitassero la professione di musiciste (come qualsiasi altra, in effetti) e gli uomini erano così poco disposti a condividere lo spazio lavorativo con loro, che l’unico modo che una musicista aveva di suonare a livello professionale era fondare o entrare a far parte di un’orchestra femminile.
Antonia Brico voleva superare questo ghetto, voleva che il mondo si aprisse alle orchestre “miste” e cercava di smuovere le coscienze con i suoi appelli e le sue provocazioni. Diceva “art is sexless”, l’arte non ha sesso. Ma – aggiungo io per evitare fraintendimenti – gli artisti e le artiste, sì. L’arte può essere studiata da tutti e tutte, chiunque può renderla il proprio lavoro, chiunque vi può eccellere, ma quel chiunque è qualcuno, è una persona e merita di essere riconosciuta e nominata per quello che è. Senza che esplicitare il genere femminile sminuisca la posizione professionale. Senza che una parte di noi entri in conflitto con ciò che facciamo.
Eppure tristemente è proprio così che accade ancora per molte professioni. Basti pensare ai modi con cui i giornali spesso insinuano che ci sia una dissonanza tra essere donna e rivestire un ruolo storicamente maschile. 

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La narrazione dei media

Nel 1969 “La Stampa” descriveva la direttrice d’orchestra di fama internazionale Claire Gibault alludendo a un “complesso virile”, poi – nel 1995 – una giornalista chiedeva sempre a Gibault se si sentisse “femminile fino in fondo”. Una fissazione per la direttrice francese? No, solo la brutta abitudine dei media di ricorrere ai cliché per condire la notizia. Nel più recente 2008 una giornalista definiva la direttrice Marin Alsop “donna-uomo”. Farebbe quasi ridere se non fosse per le implicazioni culturali dietro a queste affermazioni e le loro conseguenze. 

Un paio di scivoloni stilistici isolati? 

Macché, da quando hanno iniziato a fare le musiciste di professione le donne sono spesso state ricondotte a un “suona in modo troppo virile per essere una donna” oppure liquidate con un “l’esecuzione risente della sua femminilità”. Come se le due condizioni – di musicista e di donna – fossero in rapporto di insuperabile conflitto, conflitto che inquina la performance musicale. È il caso della pianista di fine Ottocento Cécile Chaminade o della direttrice d’orchestra italiana degli anni Quaranta Carmen Campori, entrambe note ma sistematicamente ricondotte a questo cortocircuito. È anche il caso di tutte quelle donne che nel campo dell’arte hanno scelto pseudonimi maschili per eludere questi pregiudizi e poter pubblicare le loro opere: George Eliot, Acton Bell, Mel Bonis, ecc…

Screditare le donne o nasconderle dietro a nomi maschili ha contribuito a relegarle nel dimenticatoio della storia e ha rafforzato gli stereotipi sul genere. 

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La questione della declinazione: due pesi e due misure

L’abitudine odierna di adottare il maschile “direttore” anche per le donne è una sorta di evoluzione degli pseudonimi maschili utilizzati nell’Ottocento. Oggi però non è come ieri, quando non c’era alternativa. Oggi, a mio avviso, il livello del dibattito consentirebbe qualche scelta di coraggio e di consapevolezza in più. 

Chi chiama una donna avvocato, sindaco, ministro, direttore d’orchestra sostiene la sua scelta perché il mestiere storicamente è maschile. Però esistono anche mestieri tradizionalmente femminili, quelli della cura (a cui gli uomini sono stati a lungo ingiustamente ritenuti inadatti) come l’infermiera, la maestra e l’ostetrica. Eppure a nessuno viene in mente di chiamare un uomo che svolge oggi queste professioni infermiera, maestra o ostetrica. “Scusi infermiera” a un uomo; “Oggi vado a colloquio dalla maestra” ed è un uomo. L’idea fa abbastanza ridere solo a pensarci, vero?

Fa ridere perché le donne sono state per secoli considerate inferiori, per cui un uomo appellato al femminile è ridicolizzato. Per lo stesso motivo alcune donne che rivestono una professione da sempre svolta da uomini, se sono chiamate al femminile si sentono declassate, si offendono: Beatrice Venezi in questo è sicuramente in un’affollata compagnia.

Al contrario, per una donna essere appellata al maschile è un gran complimento. Esemplare l’episodio del grande direttore Leonard Bernstein che ascoltando la giovane Marin Alsop diceva “se chiudo gli occhi mi sembra che sul podio ci sia un uomo”. Nelle intenzioni era una lusinga alla giovane direttrice in erba – oggi una delle più note al mondo – e negli anni Ottanta poteva in effetti suonare come un sincero incoraggiamento, ma ora dovrebbe risultare quantomeno “stonato”. A questo retaggio invece molte donne sono inspiegabilmente affezionate. Forse perché le fa sentire speciali. Forse perché il maschile è percepito come l’universale, mentre il femminile come il particolare, d’altra parte è ciò che ci insegnano da sempre. 

Lasciarsi alle spalle questa abitudine però potrebbe essere un bello scossone per la mentalità patriarcale.

Perché è importante quella lettera finale?

Negli articoli o nei servizi tv, in molti casi la direttrice è presentata come “direttore d’orchestra”, salvo poi enfatizzare l’essere donna con titoli a effetto tipo “Bacchette rosa alla riscossa” (“Il Tempo”, dicembre 2020). Forse anche questo spinge molte professioniste a ricorrere al maschile, per contrastare la narrazione delle direttrici-Winx. È comprensibile, ma così confermano l’idea che essere donne sia una sottocategoria da rinnegare, a costo di snaturare la grammatica italiana.
Probabilmente nelle lingue dove non esistono le declinazioni di genere il problema è sentito con intensità differente. Però noi abbiamo l’italiano, un idioma meravigliosamente ricco.
Si pensa che le persone ricche siano fortunate e odiosamente spensierate, dimenticando che hanno un grosso problema: amministrare le loro ricchezze!
Credo sia un po’ quello che dobbiamo fare con la nostra lingua. Abbiamo il maschile e il femminile, una grande risorsa per comunicare la varietà: con poche lettere finali possiamo indicare se la persona in questione è un uomo o una donna. Non credo sia un’informazione rilevante di per sé, ma in un mondo dove le donne sono state a lungo invisibili, relegate alla sfera domestica, ora che finalmente hanno occupato di fianco agli uomini lo spazio pubblico è giusto, ed è rivoluzionario, nominarle e renderle pienamente visibili.
Dovremmo investire sulla nostra ricchezza linguistica e farla “fruttare”. Perché quella declinazione femminile può aprire un mondo di opportunità a chi ascolta: i modelli del passato sono pochi, ma se oggi una ragazza viene a sapere che un concerto sarà diretto da una direttrice d’orchestra potrà immaginarsi a dirigere, se leggerà che una ministra ha fatto una certa riforma potrà nutrire le sue ambizioni di impegno politico. Se quella ragazza sentirà parlare professioniste che non rinnegano la desinenza femminile e si riconoscerà in loro, potrà cominciare a immaginare sé stessa nel futuro senza limiti o contraddizioni.

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Per questo il mio invito è: chiamatele e chiamatevi “direttrici d’orchestra”.

*Insegnante cremonese, laureata in musicologia e diplomata in pianoforte, autrice del saggio “Direttrici senza orchestra” ed. LIM 2020, co-curatrice della pagina social @CheSagome, in cui racconta in pillole le donne della storia della musica.

Clicca qui per l’intervista a Ilaria Giani: «Direttrici senza orchestra perché comanda la retorica maschile»

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