Fascismo criminale: spuntano nuovi documenti sui crimini della Brigata Nera di Faenza
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Fascismo criminale: spuntano nuovi documenti sui crimini della Brigata Nera di Faenza

Verbali dei carabinieri, rapporti delle questure, atti dei tribunali, testimonianze e interrogatori, documenti del Cnl. Sono documenti che a leggerli fanno venire i brividi per le brutalità che raccontano

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Claudio Visani Modifica articolo

21 Aprile 2021 - 15.49


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 Il 25 aprile saranno passati 76 anni e per il secondo anno consecutivo non ci potranno essere, causa Covid, celebrazioni pubbliche. Non si potrà andare a Casa Cervi, a Montesole o a Cà di Malanca per ricordare cosa sono stati il nazifascismo e la Resistenza, per festeggiare la Liberazione e leggere Piero Calamandrei: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione».

Intanto continuano a emergere qua e là documenti terrificanti sui crimini dei fascisti. Giuseppe (Beppe) Sangiorgi, giornalista e scrittore di Casola Valsenio (Ravenna), ad esempio, ha recuperato diverse carte su quelli commessi dalla Brigata Nera di Faenza prima in Romagna poi al Nord, dove le squadracce dei repubblichini di Salò ripiegarono nell’autunno del 1944, e me li ha girati. Verbali dei carabinieri, rapporti delle questure, atti dei tribunali, testimonianze e interrogatori, documenti dei Comitati di liberazione. Sono documenti che a leggerli fanno venire i brividi per le brutalità che raccontano. Ne ho selezionato, scannerizzato e riassunto alcuni. 

LA FUGA AL NORD DELLE BRIGATE NERE

Nell’agosto del 1944 le forze alleate lanciano l’operazione Olive. La Quinta Armata americana e la Ottava Armata inglese decidono di avanzare verso Nord. L’avanzata, com’è noto, sarà lentissima e si dispiegherà soltanto nella primavera del 1945. La resistenza tedesca lungo la linea Gotica è agguerrita. I comandi anglo-americani non hanno fretta, non vogliono rischiare i loro uomini, risalgono piano lo Stivale, mandando avanti le truppe polacche, indiane, brasiliane. Dopo la liberazione di Rimini avvenuta il 20 settembre, il fronte si ferma. Si prepara l’autunno-inverno più tragico della guerra. I partigiani impegnati a combattere da soli i nazifascisti lungo tutta la catena appenninica. Le rappresaglie e fucilazioni contro “i traditori e i nemici del Fascio” (su quelle di Casale e di Rivalta, nel faentino, ho scritto i libri “L’eccidio dei martiri senza nome” e “La ragazza ribelle“, con l’incredibile storia di  Annunziata Verità, “Nunziatina“, sopravvissuta al plotone di esecuzione). Gli eccidi dei civili culminati nelle stragi di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto. L’esito della guerra, tuttavia, ormai è segnato e i nazifascisti lo sanno. In Emilia-Romagna le Brigate Nere si preparano a ripiegare verso Nord. 

A Faenza i repubblichini sono guidati da Raffaele Raffaeli, un capo privo di scrupoli, spietato, che assieme a un gruppo di altri brutti ceffi ha costituito una delle milizie più sanguinarie d’Italia. Fisico minuto e occhi azzurri, famiglia tutta patria, duce, odio e violenza, a poco più di vent’anni è già capo dei fascisti faentini. Ha solidi collegamenti con le gerarchie del Fascio e della Curia. Debutta facendo arrestare una quindicina di antifascisti rei soltanto delle loro idee. Non hanno commesso alcun reato, non c’è uno straccio di prova, il Tribunale è praticamente obbligato ad assolverli. A quel punto Raffaeli decide di farsi un Tribunale speciale personale nella sede del comando della Brigata Nera, a Villa San Prospero, alle porte della città. Lì, con la complicità di alcuni dei suoi sgherri e dei tedeschi, decide della vita e della morte degli antifascisti. La signorile dimora nella collina di Castel Raniero diventa il luogo della barbarie: soprusi, processi senza legge, carcerazione, tortura. Tra la primavera e l’estate del 1944 la Brigata Nera e il Tribunale di Raffaeli si rendono responsabili di una serie impressionante di crimini e violenze: rastrellamenti, rappresaglie, case incendiate, pestaggi, condanne a morte, fucilazioni. E rapine in banca. In autunno, quando gli alleati si apprestano a liberare Faenza, prima di fuggire verso Nord con la famigerata 29esima Brigata Nera Ettore Muti, Raffaeli decide che è ora di fare la “provvista”. E pianifica una serie di clamorose estorsioni e vere e proprie rapine a mano armata ai danni di diversi Istituti di credito e di alcune facoltose famiglie locali.

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LE RAPINE IN BANCA.

Dal rapporto dei carabinieri della compagnia di Faenza sul fermo e l’interrogatorio del brigatista nero Romano Lanzoni, inviato alla Questura di Ravenna il 9 luglio 1945.

“Il 25 settembre 1944 verso le 10 il milite della Brigata Nera di Faenza, Francesco Cattani, Nello Cassani e  altri tre non identificati si presentarono alla sede della Banca d’Italia, trasferita in parrocchia Celle di Faenza, e sotto la minaccia delle armi si fecero consegnare dal direttore Paramucchi  Cesare la somma di lire 2.779.850 in biglietti di stato e assegni. Dopo qualche giorno, verso le ore 10, si presentarono allo stesso istituto di credito certi Casadio Raimondo con il figlio Casadio Oberdan di anni 22, Pomi Afro, Ravaioli Paolo, appartenenti alla Brigata Nera di Faenza, i quali sotto la minaccia delle armi si fecero consegnare la somma di lire 535.000 costituita tutta in monete d’argento da lire 5. Nella circostanza prelevarono inoltre il direttore Paramucchi che condussero a Villa San Prospero dove venne fatto oggetto di gravi minacce da parte del segretario politico del fascio e comandante della Brigata Nera di Faenza, Raffaele Raffaeli, da Badiali Rodolfo e Tedesco Achille, questi ultimi membri del direttorio del Fascio e mandatari dell’estorsione. Verso le 10 del 25 settembre 1944 il milite della Brigata Nera, Samoré Silvano, accompagnato da altri non identificati, si presentò al direttore della Banca Popolare di Faenza, dottor Strocchi Luigi, dal quale sotto la minaccia delle armi si fece consegnare la somma di lire 200.000. Nello stesso giorno il Cattani Francesco accompagnato da altri componenti non identificati della Brigata Nera si presentò al cavalier (cognome illeggibile, ndr) Daniele, direttore della Cassa di Risparmio e Monte dei Pegni di Faenza, al quale disse di essere stato inviato dal Raffaeli e sotto minaccia delle armi si fece consegnare la somma di lire 322.350. Nello stesso giorno il Raffaeli accompagnato da Cassani Nello e altri non identificati si presentò al direttore del Credito italiano, ragionier Ranieri Aristide, e gli impose di consegnargli la somma di Lire 756.000. Tedesco Achille, Samoré Silvano e Pomi Afro sono detenuti nelle carceri di Vicenza, il Raffaeli e il Badiali sono tuttora latitanti mentre circola la voce che il Casadio Raimondo il figlio Oberdan e Cassani Nello siano stati uccisi dai partigiani dell’alta Italia”.

Dal verbale di interrogatorio del repubblichino Francesco Schiumarini, protocollato il 26 novembre 1945 e firmato dallo stesso Schiumarini e da due ufficiali dei carabinieri di Faenza.  

“Da Raffaeli ho udito che persone facoltose di Faenza gli consegnavano delle somme, ma non sono in grado di dire se tali somme venissero date spontaneamente oppure dietro imposizione del Raffaeli stesso. Fra dette persone sono in grado di citare le seguenti: famiglia conte Ferniani, conte Margotti che ha la villa a Castel Raniero, conte Zucchini, conte Zauli Nardi Benvenuto, conte Emaldi, avvocato Francesco Bracchini, dottor Francesco Archi, conte Scipione Gessi, Cogolli Chiarissimo proprietario di stabilimento vinicolo a Bagnacavallo, tal Mita Nino proprietario di una fornace, fratelli Minardi rappresentanti della Fiat e altri”.

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Dal rapporto del 7 novembre 1945 del dirigente della Questura di Ravenna al pubblico ministero della Corte Straordinaria d’Assise di Ravenna sulle malefatte del segretario del Fascio di Brisighella, Rodolfo Badiali. 

“A Faenza il Badiali si rese colpevole nella terza decade di settembre 1944, unitamente al Raffaeli e ad altri, di avere ordinato l’estorsione a mano armata di rilevanti somme in danno della succursale della Banca d’Italia di quella città”.

LA BRUTALITA’ FASCISTA 

Sempre dal verbale di interrogatorio di Francesco Schiumarini, firmato dallo stesso.   

“Alla fine di settembre 1944 Boschi Raffaele e Cassani Nello, della Brigata Nera di Raffaeli, catturarono nella sua casa di Faenza, Mulino Batticuccolo, Bandini Bruno (antifascista militante già confinato per 5 anni alle Tremiti, rappresentante del Partito comunista nel Comitato di liberazione e uno degli organizzatori della Resistenza faentina, ndr), che tradussero a Villa San Prospero in arresto fino al 5 ottobre. Quel giorno a mezzo dell’autocarro condotto da Bertoni Lino, il Bandini fu trasportato in parrocchia Tebano. Fu fatto scendere nei pressi del cimitero. Fu sottoposto a vere e proprie sevizie da parte di Cassani Nello e Cattani Francesco, i quali lo picchiarono con un bastone tanto che gli spezzarono anche un braccio e una gamba. Lo fecero salire e scendere per una scala a pioli per più volte dopo di che il Cattani lo finì con due colpi di pistola alla testa. Io ero presente ai fatti ma nego di aver partecipato agli stessi. Ho partecipato al rastrellamento del 6 ottobre nelle parrocchie di Pergola, Tebano e Pideura. Durante il rastrellamento dai tedeschi furono assassinati 4 contadini e incendiate alcune case coloniche”.

Dal verbale del CLN Alta Italia del 30 ottobre 1945 sui crimini della Brigata Nera di Faenza comandata da Raffaeli, compiute nel novarese tra la fine del 1944 e la primavera del 1945, dopo il ripiegamento al Nord.

“La sera del 26 febbraio Rodolfo Badiali in unione con Raffaele Raffaeli, dopo aver finto di lasciare in libertà il parroco di Castiglione, don Giuseppe Rossi, lo faceva prelevare da quattro loro degni compagni dai quali fu massacrato a colpi di calcio di fucile e nascosto in un burrone, dove fu trovato sette giorni dopo. Con ripugnante cinismo, il Badiali ebbe la spudoratezza di pubblicare e firmare un manifesto nel quale accusava i patrioti dell’orribile crimine con queste testuali parole: “Questo comando si unisce al paese tutto nel sincero rimpianto per la scomparsa del parroco di Castiglione, reputato persona onesta e animato da puri sentimenti di italianità”. 

LA FUGA DI RAFFAELE RAFFAELI E LA PROTEZIONE DEL VATICANO

Nella notte tra il 26 e il 27 aprile 1945 i tedeschi discendono la Val Ticino e incontrano tra Turbigo e Nosate la colonna di repubblichini della “Brigata Ravenna” di Raffaele Raffaeli che scende dall’Ossola e che chiede di accodarsi a loro. I tedeschi rifiutano, non vogliono zavorre di italiani traditori. Nei giorni seguenti una ventina di brigatisti neri, tra cui Raffaele Raffaeli, il fratello Riccardo di 19 anni e il padre Natale di 47, sono asserragliati dentro una caserma circondata dai partigiani nei pressi di Novara e trattano la resa col Comitato di liberazione nazionale. Quando, il 2 maggio, vengono presi in consegna dagli Alleati per essere portati nei campi di prigionia, Raffaele Raffaeli, il fratello Riccardo e il padre Natale stranamente non ci sono più. Raffaele raggiunge la moglie incinta nel vicentino e fugge con lei, prima in bicicletta poi nascosti in un carro di fieno. Si narra che durante la fuga incontri un sottoposto repubblichino che ha un lasciapassare per entrare nell’Italia già liberata. Lo prende, lo taglia a metà, si tiene la parte bianca senza l’intestazione nominativa e con quello riesce a passare indenne ai controlli. Quel che è certo è che arriva a Roma, con la moglie. Del fratello e del padre si perdono le tracce. Tutti gli altri fascisti della “Brigata Ravenna”, mollati dai Raffaeli, vengono arrestati. Sono 159. I partigiani redigono e conservano l’elenco con nomi, cognomi luoghi e date di nascita, mestieri. Molti sono senza documenti e probabilmente danno false generalità. 

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Nella capitale Raffaeli ha amici potenti e la protezione del Vaticano. Un prete del quartiere Prati gli offre rifugio e un lavoro nel signorile quartiere del Gianicolo. Subito fa traduzioni e batte a macchina le tesi degli studenti del locale collegio. Poi il preside lo promuove addirittura docente (senza diplomi) e gli affida la cattedra di italiano per seminaristi stranieri al liceo classico privato Cristo Re. Sempre con l’aiuto della Chiesa, assume la falsa identità di Antonio Petani. Grazie a questa rete di complicità, Raffaeli riesce a farla franca. Si sottrae all’arresto, ai processi e alle diverse condanne emesse contro di lui nell’immediato dopoguerra. A Ravenna, la Corte d’Assise Straordinaria lo condanna a morte, in contumacia. Un primo ricorso viene respinto in appello il 25 giugno 1947. Raffaeli, sempre contumace, ricorre in Cassazione. La Corte giudica inammissibile il ricorso ma converte la pena di morte con quella dell’ergastolo, ordinandone l’immediata esecuzione. La polizia intanto è riuscita a scoprire dove abita. La mattina del 5 giugno 1949 suona al campanello della sua abitazione romana, ma lui, guarda caso, non c’è più. Si è rifugiato in una residenza della Città del Vaticano, fuori dalla giurisdizione italiana. Per la serie corsi e ricorsi, lo stabile è di proprietà di Propaganda Fide, la potente congregazione ecclesiastica che si occupa dell’attività missionaria e di evangelizzazione, che negli anni Ottanta verrà coinvolta nello scandalo della P2. Grazie all’amnistia, il 23 gennaio 1954 il Tribunale di Ravenna gli riduce la condanna, dall’ergastolo a soli 10 anni di carcere. E il 6 novembre 1959, con una declaratoria e in virtù di altri condoni, dichiara estinto il reato. Per altri 22 anni vivrà in libertà, con una serie impressionante di delitti e violenze bestiali sulle spalle, senza avere fatto un solo giorno di galera. Secondo le testimonianze dei prelati che a Roma lo protessero e aiutarono, era “un insegnante apprezzato dai suoi allievi in particolar modo per la sua umanità”. Nemmeno le schiaccianti prove a suo carico emerse nei processi scalfirono la fiducia della Chiesa. Raffaele Raffaeli è morto d’infarto a Roma il 4 maggio 1981, a 59 anni, da uomo libero. 

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