di Antonio Salvati
Vincenzo Paglia ci ha abituato a libri molto suggestivi scritti a due mani. L’ultimo volume, Il senso della vita (Einaudi Stile libero 2021 pp. 189, € 16,50), scritto insieme a Luigi Manconi, è un libro-conversazione decisamente accattivante su eutanasia, dolore, diritti e tanto altro ancora tra un religioso – o meglio un «piccolo credente» come si autodefinisce l’arcivescovo Paglia – e un «pococredente» (da scrivere tutto attaccato, come desidera il sociologo Manconi). Un testo assolutamente utile per tutti coloro che desiderano approfondire alcune questioni fondamentali del nostro essere cittadini contemporanei — libertà, uguaglianza, giustizia, fraternità — attraverso uno scambio di opinioni schietto, leale e coraggioso che francamente produce fascinazione nei lettori.
Gli autori, nel chiaro sforzo di comprendere reciprocamente le ragioni dell’altro, sono chiaramente spinti dal desiderio di costruire qualcosa insieme. Paglia non è nuovo a questo genere di imprese, come quello di creare una sorta di nuova alleanza fra laici e cattolici, caratterizzata da un nuovo senso di comunità, come attestano i dialoghi realizzati in passato con Arrigo Levi e Giuliano Amato.
Apparentemente ci troviamo di fronte a un confronto tra due concezioni del mondo distanti e, per certi versi, inconciliabili. Su alcuni temi cruciali per la nostra esistenza e le nostre relazioni interpersonali sembrerebbe non esserci la possibilità di una visione comune. Tuttavia, i due autori con competenza si misurano con la concretezza e le contraddizioni delle nostre società, profilando un abbozzo di un nuovo umanesimo che dia senso e significato alle nostre scelte nella vita quotidiana.
Non è mai semplice dialogare sul senso della vita, avverte Paglia. Lo è ancor meno in questo tempo segnato da una pandemia come quella del Covid, che «ci è caduta addosso all’improvviso. Un piccolissimo essere, neppure vivente, anzi parassita, si è diffuso nel mondo e ci ha messo tutti in ginocchio: persone e istituzioni». Siamo entrati nel terzo millennio senza visioni. Siamo in pieno «cambio di epoca», e avremmo bisogno di pensieri lunghi e di passioni forti per muovere gli spiriti verso un domani più sereno. Per questo – secondo Paglia – è indispensabile ritornare a «sognare» già da oggi, altrimenti il domani sarà senza dubbio peggiore del passato. Quello che è accaduto nei mesi successivi all’inizio della pandemia ha segnato la storia del nostro Paese e della gran parte del mondo in maniera acutissima. Il Covid – spiega Paglia – «ha riassunto in sé le grandi prove dei primi vent’anni di questo nuovo millennio: dall’attentato alle Torri Gemelle di New York alla crisi finanziaria del 2008» e per questo «rappresenta uno spartiacque decisivo. Dobbiamo cambiare passo, il più coralmente possibile, se vogliamo un domani migliore. Siamo ancora nella prova: la potenza di destabilizzazione della pandemia sul nostro progetto di vita l’abbiamo vista crescere giorno dopo giorno, mese dopo mese, ondata dopo ondata. L’impatto è stato terribile, in tutti i sensi. Eravamo nel mezzo della nostra euforia tecnologica, del tutto impreparati a quanto stava per caderci addosso: abbiamo fatto fatica persino a riconoscerne e ad ammetterne l’impatto. E grande è stato – ed è ancora – l’affanno anche soltanto per arginare la diffusione del virus».
La fraternità – osserva Paglia – «è la grande promessa mancata della modernità. Credo che, per la prima volta nella storia, l’ecumene, la «grande famiglia umana», sia divenuta una realtà concreta e la Terra riconosciuta come “la casa comune”. Siamo in un certo senso obbligati a “un solo mondo”, scrive papa Francesco in Laudato si’. Sono sempre più convinto che la ritessitura dei legami umani – messi a dura prova dalla stessa pandemia – sia decisamente il primo compito per riaprire un futuro umano. Fin da ora». Un futuro che deve essere accompagnato dal contenimento del male, aggiunge Manconi. Serve scrivere una nuova pagina della storia, c’è un mondo da immaginare e costruire. Migliore, se possibile. E assieme, concordano i due autori.
Infatti, la rapidità con cui il contagio si è diffuso nel nostro Paese (come pure nel mondo) sta a significare il legame strettissimo che ci unisce tutti. Ciò che accade a ciascuno diventa determinante per la collettività. Lo sapevamo già, avverte Paglia, «ma non ce ne rendevamo conto e, tantomeno, diventava una scelta positiva. La pandemia lo ha reso evidente: le conseguenze delle nostre azioni ricadono sempre anche sugli altri». Manconi teme che qualora effettivamente il Covid venisse sconfitto o, almeno, posto sotto controllo, l’esperienza di questo trauma, «per quanto tragica, verrà messa da parte e archiviata. Non dico dimenticata, ma non adeguatamente elaborata. La storia, si sa, insegna poco o nulla. E penso che resisteranno più le cattive abitudini contratte che le pratiche virtuose sperimentate». Resta la scoperta dolorosa della nostra globale vulnerabilità: «una fondamentale lezione di umiltà che ci viene crudamente impartita».
Difficile dar conto, in poche battute, sullo spessore delle considerazioni sviluppate nel volume, un vero e proprio distillato di sapienza. Forte convergenza tra i due autori c’è sulle questioni carcerarie, soprattutto sulla critica dell’«irrazionalità punitiva». Interessanti riflessioni sulla questione migranti e sulla necessità di formulare uno ius migranti universale. Giustamente si chiede Paglia: il mondo ricco non ha il dovere di pianificare il futuro del pianeta come la casa comune di tutti? Manconi insiste sui vantaggi che l’immigrazione apporta nel nostro paese, pur con la consapevolezza che l’impatto con lo straniero è sempre un’esperienza complessa.
Infine, degna di nota è l’attenzione posta sulla vecchiaia. Nel nostro tempo, per la prima volta nella storia, è nato un vero e nuovo popolo: gli anziani. Osserva Paglia che vivono assieme quattro generazioni: quella dei ragazzi, quella dei giovani, quella degli adulti e quella degli anziani. L’Italia, dopo il Giappone, è il secondo Paese più vecchio al mondo. Un primato per certi versi invidiabile. Avere trent’anni in più da vivere – spiega Paglia – comporta notevoli conseguenze sul modo stesso di concepire la propria esistenza, i propri giorni, i propri progetti: «non è senza ripercussioni dover programmare tanti anni di vita dopo il pensionamento, essendo sani o malati. E ha notevoli implicazioni per un bambino che nasce oggi avere un numero di anni ben più cospicuo di quello dei suoi genitori. Una vita nascente che ha davanti a sé un cammino incerto quanto al resto, ma non al fatto che sarà assai più lungo e una morte sempre più lontana e persa tra i problemi posti dalle nuove malattie degenerative e che le tolgono il carattere di evento puntuale e le assegnano più di frequente quello di un lento e penoso processo, pongono in essere le condizioni perché le classiche età della vita – infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia – assumano confini e contenuti nuovi e con esse l’esistenza umana nel suo insieme. La longevità, quindi, non introduce solo un cambiamento quantitativo nella considerazione della vita umana ma, forse in maniera ancor più radicale, modifica le stesse età della vita dando origine a nuove problematiche e a nuove riflessioni. E invece continuiamo a ragionare quasi la vecchiaia fosse quella di altri tempi».
Una vita più lunga non significa per forza vita migliore e, al contrario, la pandemia ci ha detto che la longevità può rappresentare non un’opportunità di benessere, bensí uno stato di deterioramento di tutte le circostanze e le condizioni del vivere. Non sono sufficienti – per quanto auspicabili – riforme settoriali capaci di modificare le condizioni concrete e che possano alleggerire le fatiche di una vita prolungata, come lo sviluppo di una medicina geriatrica, a contatto con i suoi destinatari, e il rafforzamento dell’assistenza domiciliare. Lo sviluppo accelerato della medicina, il rafforzamento di una cultura che porta alla cura della persona umana, sarebbero una vittoria monca se non l’accompagnassimo con un pensiero innovativo relativamente alle generazioni. È avvenuto – ricorda Paglia – in passato quando alla fine dell’Ottocento è stata scoperta l’infanzia come un’età che richiedeva un nuovo pensiero e una nuova organizzazione. La vecchiaia non è più un periodo residuale della vita, «una lenta e mesta cerimonia di congedo, una categoria omogenea dai bisogni omogenei, ma un grande e variegato continente dell’umanità con orizzonti insperati e insospettabili». La scarsa considerazione riservata agli anziani nasce anche dalla paura, insita nell’essere umano, per la vulnerabilità associata all’ultima parte della vita; e questo sentimento si traduce in trascuratezza e abbandono perché l’attenzione e la vicinanza potrebbero trasformarsi in un contagio capace di infettarci. Su questo ed altro il libro fornisce preziose indicazioni che lasciamo alla lettura dei lettori.