di Rock Reynolds
Non c’è più solo il Mostro a turbare i sonni dei fiorentini. O meglio, non c’è più solo un mostro in una delle città più fosche e più ricche di storia e bellezza del mondo.
La letteratura noir da sempre si fa portavoce delle paure dell’uomo medio e, in qualche modo, tenta di fornire una spiegazione a interrogativi che, altrimenti, resterebbero confinati tra le aride pagine della cronaca nera. La letteratura noir serve proprio ad aiutare il lettore a esorcizzare le sue ossessioni, oltre che a fargli trascorrere qualche ora di sana evasione.
Michele Giuttari, noto ai più per aver condotto il pool investigativo Gides (la squadra preposta alle indagini sui delitti seriali del cosiddetto “Mostro di Firenze”), sa fare entrambe le cose e le sa fare pure bene. Non a caso – e sono numeri incontrovertibili a dirlo – è l’autore noir italiano più venduto all’estero e uno dei pochissimi ad aver infranto la barriera quasi impenetrabile del mercato inglese. Nella perfida Albione, di autori che hanno dato alle stampe investigatori passati alla storia del genere non ne mancano certo. Eppure, Giuttari oltremanica è amatissimo. E non può essere un caso che la patria di Sherlock Holmes, Miss Marple, Lord Peter Wimsey, Thomas Pitt e Adam Dalgliesh, per citarne alcuni, abbia incoronato tra i suoi personaggi preferiti proprio il commissario Ferrara da lui creato.
Oggi, a distanza di diversi anni dalla sua ultima fatica, Michele Giuttari torna con un thriller che ha tutte le carte in regola per appassionare e tenere il lettore ancorato alle pagine: Sangue sul Chianti (Fratelli Frilli Editori, pagg 467, euro 18.90). L’amico comune Jeffery Deaver direbbe che, se un lettore si mettesse a leggerlo mentre è in viaggio in autobus, probabilmente si ritroverebbe al capolinea senza essersi reso conto di non essere sceso alla fermata sotto casa. I thriller vanno letti, non raccontati. Si può, invece, raccontare meglio chi sia Michele Giuttari proprio attraverso le parole che ci ha concesso.
Non è difficile individuare anche stavolta nel commissario Ferrara l’amico Michele. Come fa a tenere separato il Michele scrittore da quello che le indagini le ha vissute di persona?
Nella creazione del protagonista dei miei romanzi mi è venuto del tutto naturale prendere a modello me stesso. Non mi sono dovuto guardare in giro per ispirarmi a un altro investigatore da trasferire sulla carta. Le mie esperienze nel campo investigativo in zone molto impegnative (Calabria, Sicilia, Campania, Toscana), vissute sul campo in prima persona, mi hanno fornito ispirazione, come ad esempio nello sviluppo delle tecniche investigative, nella descrizione degli umori in un ufficio di polizia, nel linguaggio dei poliziotti. Poi ci ha messo del suo la creatività e, lavorando di fantasia, ho cercato di rendere le storie verosimili per essere godibili e credibili per i lettori. Un’operazione normalissima riuscendo a tenere separato lo scrittore da quanto ha avuto modo di vivere nella realtà, anche se talvolta è stato difficile. Ma il lavoro di continue revisioni e soprattutto talvolta di completa riscrittura è stato utile per mantenere il giusto distacco.
Ci racconti il fascino nero che la città di Firenze esercita.
Ancora è Firenze che mi ispira, ma, come risulta in Sangue sul Chianti, incomincia a stimolarmi anche Roma. Firenze è una città ricchissima, dove c’è denaro e con questo c’è potere. È una città in cui, anche camminando tra le sue viuzze del centro storico, si nota una certa cupezza che la rende oscura e insicura agli occhi di un attento osservatore, specialmente a chi ha avuto la possibilità come me di fare il capo della mobile e di conoscere da vicino sia il Male sia il Potere. Ed è questo lato oscuro che contrasta in pieno con le sue bellezze, tra cui la campagna considerata la più bella del mondo. Non a caso, grandi sceneggiatori e registi l’hanno scelta per ambientarvi storie di sangue, come ad esempio in Hannibal di Ridley Scott. È, dunque, chiaro che questo aspetto finisce per stimolare l’attività letteraria alla scoperta di quella vita vera che si immagina sia nascosta, come in passato, dentro le grandi dimore, ville e castelli. Lì dove col potere si crede di poter schiacciare tutti.
A un certo punto della storia, il commissario Ferrara esprime qualche perplessità sul vecchio procuratore capo. So che anche lei ha avuto le sue difficoltà. Come si districa un autentico poliziotto a capo di indagini importanti nei corridoi talvolta ostili del palazzo?
Questa domanda mi ricorda il mio passato che ormai mi sono lasciato alle spalle e non intendo più ritornarci. Posso dire, però, che, di fronte a situazioni per così dire anomale in rapporti istituzionali, l’autentico poliziotto deve proseguire sulla strada intrapresa se è convinto di essere dalla parte giusta. Costi quel che costi. Perseguendo altre vie o raggiungendo compromessi non farebbe un buon servizio allo Stato al quale ha giurato piena fedeltà.
Anche il rapporto di Ferrara con i giornalisti non ne fa uscire un quadro nobilissimo dei reporter d’assalto. Il confine tra libertà d’espressione e ostruzione alla giustizia qual è?
Questo è un tema molto delicato sul quale sempre più spesso si dibatte. Mi limito a dire che oggi è diventato raro trovare quei giornalisti investigativi che un tempo ormai lontano riuscivano a fornire col loro lavoro anche degli input agli inquirenti. E che, lavorando con serietà, avevano come obiettivo la verità senza travalicare il loro campo d’azione.
Il quadro della Firenze che lei traccia è un po’ sconfortante dal punto di vista dell’ordine pubblico: tossicodipendenza, spaccio, violenze di strada, ecc. Un quadro non dissimile da quello di altri grandi centri urbani italiani. Cos’è che non funziona?
Le mie storia sono verosimili perché ci tengo che siano credibili, convinto che anche con la letteratura poliziesca si debba parlare della realtà in cui viviamo e, dunque, dei problemi che quotidianamente possono presentarsi a tutti. Lo spaccio di droga sotto casa, la pedofilia, la mafia, l’assassino insospettabile che può essere anche il nostro vicino di casa o d’ufficio con cui ogni giorno interagiamo. Questa è realtà e Firenze non fa eccezione. Certo non tutto funziona. Di fronte al grande impegno delle forze di polizia per assicurare l’ordine e la sicurezza pubblica, c’è una legislazione inadeguata per contrastare i fenomeni criminali e, soprattutto, c’è un rapporto tra polizia giudiziaria e ufficio del pubblico ministero che da tempo auspico che venga cambiato. Perché alla polizia giudiziaria, che deve essere sempre formata professionalmente in maniera adeguata, va riconosciuta una maggiore autonomia nelle attività d’iniziativa. E questo anche perché è nei suoi appartenenti che può rinvenirsi una vera cultura investigativa.
Le è mai capitato di rendersi conto che la pista investigativa che stava seguendo era sbagliata?
Sinceramente devo dire di non essermi mai trovato in oltre trent’anni di indagini davanti a errori investigativi. Ho sempre affrontato i casi con grande prudenza, talvolta persino con autocritica, avendo come obiettivo non l’esito immediato, come può essere un arresto, ma quello finale, alla conclusione del processo. In pratica, ho visto sempre lo sviluppo dell’indagine nell’ottica processuale. Cosa che forse non tutti fanno.
In Sangue sul Chianti non ci sono riferimenti ai delitti del Mostro, la sua indagine più eclatante. Però, a un certo punto, Ferrara pensa a quell’indagine e alle amarezze che gli ha provocato. Qual è stata la sua più grande amarezza?
Non avrei potuto fare diversamente. Quell’inchiesta – sicuramente non la più importante della mia carriera ma una delle più impegnative – ha lasciato dei segni. Ed è chiaro che il mio alter ego – perché tale è Ferrara – talvolta ci ripensa, indagando nelle sue avventure senza che, sul momento, il suo autore se ne accorga, facendosi trasportare dalla scrittura. La mia amarezza è stata sicuramente non poter aggiungere altri risultati a quelli ottenuti, ma ce l’ho messa tutta, sacrificando anche la mia carriera con una storia professionale che parla da sola e che non tutti possono vantare. Comunque ho la coscienza di chi ha sempre servito lo Stato, fino a quando mi è stato consentito, senza farmi intimidire da nessuno.
Com’è che a un certo punto della sua vita ha deciso di scrivere? La voglia di farlo c’è sempre stata? Ha letto tanti romanzi di genere (italiani e/o stranieri) oppure si è scoperto scrittore quasi per caso?
Sangue sul Chianti, ottavo della serie del commissario Ferrara, è il mio tredicesimo libro, tra saggi, romanzi e un testo per l’Università di Pisa sull’investigazione. Professionalmente ho iniziato a scrivere alla fine degli anni novanta mentre curavo le note indagini sui complici di Pacciani. E, da quel momento, la scrittura ha scandito sempre le mie giornate. Oggi scrivo con orari più regolari rispetto a quando lavoravo in polizia. Quel primo romanzo, Scarabeo, l’ho scritto in un periodo difficile quando la polizia mi aveva allontanato dall’inchiesta sul Mostro e ho trascorso un anno e mezzo chiuso in casa prima di ottenere giustizia dal Tar e dal Consiglio di Stato e di ritornare nel mio posto di capo della mobile. È stata l’occasione che mi ha fatto trovare sfogo nella scrittura, mia grande passione sin dall’adolescenza, facendomi conoscere ai lettori anche nel mondo anglosassone. Praticamente la sofferenza ingiustamente patita si è trasformata in un beneficio inimmaginabile. E, curiosamente, sotto questo aspetto – ma solo sotto questo (ci tengo a sottolinearlo) – dovrei ringraziare quel capo della polizia che aveva adottato quegli strani provvedimenti di trasferimento. Ho sempre avuto la passione della lettura ma disordinatamente, specialmente negli anni del lavoro. Leggevo nei pochi ritagli di tempo e talvolta, preso da altri impegni urgenti, mettevo da parte il libro. Le mie letture prevalentemente sono state – e sono – quelle di autori stranieri quali il grande Simenon, Ed Mc Bain, James Ellroy, Robert Crais, ma soprattutto Jeffery Deaver e Michael Connelly, i più aderenti alla realtà odierna.