“Lalla, come si chiamano i nostri figli?” E’ l’inizio de “Il mio nome è Alzheimer”, il docufilm, girato in presa diretta nel Villaggio Emanuele di Roma, vincitore del Premio Speciale della Giuria, al Ferrara Film Festival. Raffaella Regoli e Antonello sono gli autori e i registi del racconto commovente e ironico dei “senza memoria” con la vita dentro. Le splendide immagini sono di Michelangelo Gratton e Beatrice Palladini Iemma, che ha curato anche il montaggio. Il documentario, prodotto dalla D4 per la Fondazione Roma, verrà presentato al grande pubblico domani 20 settembre 2021, nell’arena all’aperto della Casa del Cinema di Roma, Largo Marcello Mastroianni, a Villa Borghese, in occasione della Giornata Mondiale dell’Alzheimer. La proiezione, prevista per le ore 20, sarà preceduta da un dibattito di presentazione. Interverranno il Presidente Onorario della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, i registi, con la partecipazione della psicoterapeuta e Presidente della Fondazione Movimento Bambino Maria Rita Parsi, di familiari e operatori del Villaggio.
“Il mio nome è Alzheimer” è un documento straordinario. “Per la prima volta”, dicono gli autori Raffaella Regoli e Antonello Sette, “possiamo ascoltare, senza mediazioni e rimozioni, il racconto delle donne e degli uomini colpiti da una malattia terribile e apparentemente senza speranza. Per scoprire che l’unica cura conosciuta resta l’amore”.
Le immagini, le voci, le canzoni, si entra dentro il Villaggio in presa diretta, per sfiorare la vita quotidiana dei malati di Alzheimer. E l’amore, nella sua forma più vera e struggente, è il leitmotiv di tutto il film. La stessa ragione che ha spinto il Presidente Emmanuele Emanuele, dopo non poche difficoltà, a realizzare il suo sogno, quello di “essere vicino agli ultimi degli ultimi”, come lui stesso racconta nel film, per far nascere questo Villaggio che porta il suo nome, sul modello olandese. Un progetto unico in Italia e interamente gratuito.
Vi affezionerete come noi agli ospiti, ai loro familiari, agli operatori, perché tutto si può perdere con la memoria, finanche i nomi dei figli, del marito, della moglie, di se stessi, ma non quel filo di sentimenti senza fine. Bruno va trovare Katy tutti i giorni. “Se potessi”, spiega commosso, “mi farei operare e le regalerei mezzo cervello”. E lei uscendo per un attimo dal torpore che non le cancella l’anima, gli risponde: “Tu ti priveresti di una tua cosa per me?”.
E poi l’amore di Simona per il padre Enzo, che un tempo era la sua guida e ora ha solo un disperato bisogno di lei, anche se non sa che quella donna è sua figlia.
E Riccardo che si commuove davanti ai disegni che Maria Clara faceva quando era un’apprezzata modista. “E’ dolcissima”, ripete fra le lacrime. E lei gli chiede, ansiosa come una donna ancora innamorata: “Davvero?”.
E poi c’è il contesto, la vita di tutti i giorni, gli operatori che si prodigano oltre la professionalità, perché “l’unica cura è l’amore”, le attività: la musica, la danza, il teatro, la pittura, la palestra, il bar, il parrucchiere, il minimarket dove si fa la spesa, il pranzo, le case, divise secondo tre tipologie, che ricalcano le esperienze di tante vite un tempo diverse: familiare, urbana, cosmopolita. E soprattutto ci sono loro, i veri protagonisti del docufilm, i malati di Alzheimer, che si raccontano con ironia, da strappare più di un sorriso, che raccontano spezzoni di vita, di felicità, di dolore e di speranza. Quella che resiste alla fatica di dover vivere nonostante la perdita più pesante: quella della propria storia e della propria identità.
Il docufilm “Il mio nome è Alzheimer” restituisce a tutti loro un Nome, una voce, la dignità, la possibilità di poter ancora concepire e gridare “Io ci sono, e sono vivo”