di Alessia de Antoniis
Al Rossetti di Trieste dal 15 al 20 febbraio “Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa”. Frutto di un lungo lavoro creativo iniziato nel 2015 all’Odin Teatret di Holstebro,è la prima e unica regia firmata da Barba al di fuori dell’Odin Teatret, insieme a Julia Varley e Lorenzo Gleijeses. Ma è anche una prova attoriale intensa, che vede Lorenzo solo sul palco per oltre un’ora, mentre ipnotizza lo spettatore con una performance senza sosta fino all’ultimo attimo.
E’ stata Julia Varley ad iniziare questo lavoro insieme a Lorenzo. Attrice, regista, docente e scrittrice. Inglese, cresciuta a Milano, da anni accanto a Eugenio Barba, arrivò all’Odin nel 1976.
Eugenio Barba, parlando di Lorenzo nelle note di regia, scrive: “mi piacque la sua definizione di tradimento: scegliere un destino diverso”. Certo, ci vuole coraggio a tradire un maestro come Eugenio Barba. E Lorenzo lo ha avuto.
“Nel processo di creazione di uno spettacolo – racconta Julia Verley, la prima a iniziare questo progetto con Lorenzo – ci sono sempre momenti in cui si scontrano necessità diverse, soprattutto fra attori e regista. Avviene in modo particolare quando il regista sposta la sua attenzione dall’assistere gli attori nella creazione di scene e interpretazioni, per mettersi dalla parte degli spettatori, a quello che sarà il risultato finale. È il momento in cui scene sulle quali si è lavorato a lungo, sono tagliate perché così esige lo spettacolo. In questo caso è avvenuto che Lorenzo volesse aiutare la logica comprensibile dello spettacolo invece dell’effetto emotivo del montaggio. Non è sempre facile fidarsi che alla fine il risultato verrà: bisogna essere abituati a tempi lunghi di prove, periodi in cui ci si perde e sembra che niente funzioni. Durante la creazione di ogni spettacolo dell’Odin Teatret siamo passati per questo periodo di crisi, ma sempre accompagnati dalla speranza che il paracadute si aprirà alla fine. Abbiamo sviluppato la capacità di ascoltare i segnali che il lavoro ci dà, senza voler imporre un nostro punto di vista. Ora Lorenzo accetta che le scelte sono state giuste, ma l’impazienza e la necessità economica di arrivare presto a un risultato lo hanno fatto dubitare durante il processo, con l’intenzione di aiutare, non di andare contro.
Nel teatro ognuno rivendica almeno un maestro. Lei ne ha scelto qualcuno? A noi donne serve un’eredità o abbiamo qualcosa di più profondo, una sorta di ereditarietà?
A volte dico che i miei maestri sono i miei personaggi, da loro imparo a pensare in modo paradossale. Fra le mie prime maestre per il teatro c’è la mia insegnante di ginnastica del liceo. Da lei ho imparato lo spirito di gruppo e di non desistere al primo risultato. È molto importante creare dei riferimenti femminili fra le persone che si considerano maestre. Queste possono essere donne con molta esperienza, ma che hanno la capacità di condividere la loro vulnerabilità, o donne con meno esperienza che ci insegnano a non desistere con l’entusiasmo e l’energia della loro curiosità e voglia di lottare. Ogni giorno vengono alla luce nomi di donne che hanno marcato la storia, ma che sono state dimenticate da una tradizione abituata a pensare al maschile. Presto potremo scegliere una genealogia anche perché siamo impegnate ogni giorno a costruire la nostra storia con parole nostre che usano un linguaggio personale e non accademico, parlando in prima persona.
È stata la prima ad appoggiare Lorenzo. Cosa ha visto che era sfuggito a Barba?
Non è che Eugenio non ha visto qualcosa che io ho visto. Semplicemente io ho lavorato con Lorenzo molti anni prima che si creasse l’occasione per lui di lavorare anche con Eugenio. Il primo spettacolo di cui ho curato la regia con Lorenzo, gli ha insegnato la precisione, il ritmo, l’autonomia, la capacità di ripetere. Il secondo spettacolo è stato più incentrato sul dialogo, sia con Manolo Muoio come altro attore in scena, che con immagini video. In quest’ultimo spettacolo è la drammaturgia e il lavoro sul testo che sono stati al centro della nostra attenzione. La maturità artistica di un attore si rivela nella capacità di cominciare ogni volta dall’inizio, accettando nuove sfide e dandosi compiti che aiutano a non ripetersi.
Come si colloca la metamorfosi dello scarafaggio di Kafka nel lavoro autobiografico di Lorenzo?
Durante il processo non ho mai collegato il personaggio della Metamorfosi di Kafka alla vita privata di Lorenzo. L’associazione è venuta all’inizio del lavoro per il tipo di movimenti proposti da Lorenzo. Nello spettacolo la scelta delle voci è stata dettata più dalla praticità di usare chi era vicino per le registrazioni, che da riferimenti autobiografici. Solo dopo, durante il lockdowna, la necessità maniacale di provare di Gregorio Samsa è stato simile a quella di Lorenzo che continuava a provare ogni giorno senza poter andare in scena per la paura di perdere i dettagli del lavoro appena terminato. Ora i critici teatrali trovano queste similitudini, ma per me il vero senso dello spettacolo non è nella autobiografia.
In scena Lorenzo corre forsennatamente verso una luce che non raggiunge. Fallimento, tensione o…?
Il senso del finale lo decide ogni spettatore. Le reazioni sono molto diverse, da ottimismo sorridente a pessimismo assoluto. L’importante è continuare a correre, non rinunciare.
Mejerchol’d, Stanislavskij, Brecht, Artaud, Grotowski, Barba: una tradizione di grandi uomini del teatro del Novecento. E Lei. Perché non ci sono state donne prima? Dove sono le donne?
Anch’io mi facevo questa domanda ascoltando le conferenze sulla storia del teatro di Eugenio Barba. Ricevetti la risposta quando morì Sanjukta Panigrahi, una danzatrice classica indiana, che aveva fondato l’ISTA (International School of Theatre Anthropology) con Eugenio Barba ed altri. Scrissi un articolo in cui usavo molte interviste fatte a lei, perché volevo che Sanjukta potesse continuare a vivere e a meravigliare chi non l’aveva conosciuta con la sua bellezza. Inviai l’articolo a una rivista internazionale di teatro. Il direttore della rivista mi rispose che era ben scritto, molto caldo, ma che non poteva pubblicarlo perché era troppo personale. In quel momento capii perché le donne sono assenti nella storia del teatro.
Abbiamo bisogno di raccontare, documentare, discutere con un linguaggio personale, ma non privato. Dobbiamo imparare a scrivere e parlare del nostro mestiere conquistando il nostro spazio in maniera autonoma senza adattarci a usare un linguaggio accademico e impersonale che ci viene richiesto da una tradizione paternalista. Per questo ho fondato la rivista The Open Page, all’interno della rete di donne nel teatro contemporaneo The Magdalena Project. Invitando a scrivere donne di tutte le generazioni, di esperienze teatrali diverse, di paesi diversi, la prima risposta è sempre di assenso entusiasta. Poi molte buttano via i loro scritti e viene il periodo di invitarle a lavorare sui testi nello stesso modo in cui lavoriamo per gli spettacoli, passando per crisi e difficoltà, provando e riprovando fino ad arrivare a un risultato. Quello che trovo interessante nei numeri di The Open Page è che non è la somma dei diversi articoli a convincere, ma una voce che trascende e include tutte.
Ogni giorno mi devo scontrare con la realtà che tende a rendere invisibili e a silenziare le donne. Anche con la nuova iniziativa della Fondazione Barba Varley, fondata da Eugenio Barba e me, e con lo spettacolo di Lorenzo, nei titoli di giornale il mio cognome è spesso omesso. Continuo a lavorare come ho sempre fatto sapendo che un giorno saranno i risultati che raggiungo a far si che si ricordino anche di me. Ma ci vorrà tempo, molto tempo!
Chi è Eugenio?
Eugenio è un italiano del sud con passaporto danese, con senso dell’umorismo polacco e parte del cuore in America Latina. È un regista che pensa al teatro come politica con altri mezzi. È il compagno che ha accompagnato il mio percorso da 45 anni.