di Rock Reynolds
Mezzo secolo. È quanto è trascorso da quella domenica infausta in cui il 1° Battaglione del Reggimento dei Paracadutisti britannici sparò senza alcun motivo – nonostante i ripetuti tentativi di scaricare la responsabilità dell’accaduto sulla popolazione civile e i susseguenti imbarazzanti insabbiamenti da parte delle autorità competenti – su una folla di dimostranti pacifici, radunatisi per richiedere la tutela dei diritti civili di tutti in una terra in cui la popolazione di religione protestante godeva di privilegi che farebbero vergognare qualsiasi democrazia moderna, persino la più traballante.
Sam Millar, militante dell’IRA e compagno di reclusione di Bobby Sands, oggi acclamato scrittore di noir – tutti i suoi libri in Italia sono pubblicati dall’editore Milieu – era a Derry quella domenica per manifestare pacificamente. Insieme al fratello maggiore, riuscì a mettersi in salvo nel caos scoppiato dopo i primi colpi di fucile. Quel giorno lo segnò nel profondo e fu, insieme alla morte di un giovanissimo coetaneo colpito davanti a casa da un colpo britannico, la goccia che fece traboccare il vaso.
Belfast, 28 gennaio 2022
Sam Millar in esclusiva per Globalist
(traduzione di Seba Pezzani)
Domenica 22 gennaio, 2022: il cinquantesimo anniversario di uno dei più grandi omicidi di massa perpetrati dal governo britannico ai danni di civili in terra di Irlanda. Bloody Sunday, la domenica di sangue. Trovo inimmaginabile che siano già trascorsi cinquant’anni dal giorno in cui, da adolescente, mi recai a Derry in quella che sarebbe passata alla storia come Bloody Sunday: l’omicidio di 14 cittadini irlandesi in occasione di una marcia per i diritti civili dei cattolici dell’Irlanda del Nord. E, ancor oggi, nessun soldato britannico è stato incriminato di uno solo di quegli omicidi premeditati, eseguiti a sangue freddo. Chiunque abbia letto il mio memoir, On the Brinks, saprà che da adolescente, prima del Bloody Sunday, non avevo alcun interesse per la politica o i diritti civili. Mi interessavano solo le ragazza, ballare, la musica e i fumetti americani. Ecco le quattro cose che mi riempivano la vita e che avevano un valore nel mio mondo ingenuo ed egoista. Quando i paracadutisti britannici spararono quei colpi, uccidendo tutti quegli innocenti, mi svegliai e aprii gli occhi di fronte al mondo in cui vivevo sotto l’amministrazione e l’occupazione britanniche. Le famiglie di quelle persone assassinate hanno dovuto sopportare la più infame propaganda a opera degli inglesi. La stampa britannica aveva diffuso falsità sul fatto che i loro cari fossero stati armati di fucili o bombe. Poco dopo il Bloody Sunday, entrai a far parte dell’IRA per combattere l’occupazione britannica della mia patria e il brutale massacro di cittadini irlandesi. Fui condannato a 3 anni di prigione da un famigerato tribunale “Diplock”, in assenza di giuria, e fui mandato nel terribile inferno del carcere di Long Kesh. Avevo 16 anni e il “giudice” britannico mi definì un terrorista incallito e disse che rimpiangeva di non potermi condannare a 10 anni di carcere, malgrado contro di me non sussistesse la minima prova e nonostante il terrorista fosse lui, non io. Ai suoi occhi, il semplice fatto di essere cattolico era un crimine. Poco tempo dopo, fu ucciso dall’IRA. Non gongolai quando venni a conoscenza della sua esecuzione, ma non versai una sola lacrima. Cinquant’anni spesi ad attendere giustizia sono un tempo molto lungo, a maggior ragione se spesi ad attendere giustizia per gli innocenti. Spero che un giorno le famiglie di quelle persone assassinate dai paracadutisti inglesi ottenga giustizia. È il minimo che si meritino dopo tutto ciò che hanno dovuto passare. Però, ne dubito.