Roma, la rabbia e il riscatto. Massimiliano Smeriglio la racconta così, nel romanzo 'Se bruciasse la città'
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Roma, la rabbia e il riscatto. Massimiliano Smeriglio la racconta così, nel romanzo 'Se bruciasse la città'

Con amore critico e con la passione civica di chi non si arrende al degrado, morale, urbanistico, materiale, politico, della Capitale, l'europarlamentare Pd racconta la sua Roma

Roma, la rabbia e il riscatto. Massimiliano Smeriglio la racconta così, nel romanzo 'Se bruciasse la città'
Se bruciasse la città
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

8 Febbraio 2022 - 14.19 Giornale dello Spettacolo


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Massimiliano Smeriglio, europarlamentare Pd, Roma l’ha vissuta e frequentata in ogni suo angolo. Da politico, da amministratore (è stato vice presidente della Regione Lazio,) e da scrittore di romanzi. Con amore critico e con la passione civica di chi non si arrende al degrado, morale, urbanistico, materiale, politico, della Capitale. Sentimenti che permeano il suo ultimo romanzo, Se bruciasse la città (Giulio Perrone Editore).

Fare politica è anche scrivere un romanzo. Che racconta Roma, le sue periferie, le relazioni sociali, gli amori, i crimini che si consumano in una grande borgata, ben oltre il Grande Racconto.   Massimiliano   Smeriglio   ci   ha   provato.   E  c’è riuscito, con Se bruciasse la città (Giulio Perrone Editore).  Le chiedo: che spaccato di Roma viene fuori dal romanzo?

In realtà il nome Roma non viene mai usato, così come i luoghi raccontati molto aderenti alla realtà e tuttavia senza il nome proprio. Questo perché vedo una città plumbea scura sporca piegata in due incattivita senza più identità e coscienza di se. Roma non è solo un nome è un titolo che bisogna meritarsi. Una città che è destinata a sopravvivere ai suoi tonfi; il tema è se questa sopravvivenza è vitale, capace di rigenerazione o semplicemente una pantomima di città, un setting di resti archeologici per i turisti e fatica di vivere per i suoi cittadini. 

Marco, il Tibetano, Roberto, detto Shangai, sono alcuni dei protagonisti   di   una   storia   che   si   svolge   nel   2014. Le   dà fastidio se si accosta il suo romanzo a Suburra?

Suburra è un grande romanzo scritto da un maestro come Giancarlo De Cataldo. Tuttavia al di là di una superficiale appartenenza al mondo criminale le due storie non si somigliano affatto. In Se bruciasse la città indago il rimuginio inconsapevole dei giovani protagonisti persi lungo destini segnati dai luoghi di abitazione. Steinbeck scrive le persone sono i luoghi che abitano. E vivere in borgate lontanissime polverose senza servizi pubblici collocate abusivamente tra agro e le vecchie consolari fa la differenza. Questa volta, rispetto ai miei romanzi precedenti, ho cercato di concentrarmi molto sulle cappe di piombo che tengono in ostaggio le persone. Cappe materiali, l’impossibilità di emancipazione sociale, e cappe immateriali come la comfort zone il linguaggio le tane in cui ci si ripara.

Vitalità e violenza: sono i tratti distintivi della borgata in cui agiscono Il Tibetano e Shangai. Il loro “West” è fatto di discariche, capannoni abbandonati a cui fa da contraltare la smisurata   bellezza   della   campagna.   Roma   vive   tra   i   suoi opposti?

Le città in generale e Roma in particolare vivono di corto circuiti cognitivi e contraddizioni. Alto e basso, ricco e povero, futuro e arcaicità, bellezza e degrado, agro e eco mostri, mappe che si mischiano con bordi non sempre leggibili a occhio nudo, un ammasso di cose una accatastata sull’altra, senza ordine alcuno.

Nella dedica iniziale scrivo “alla mia città che non vuole vivere e non vuole morire, dove tutto si tocca e nulla di mescola”. Ecco il tema è proprio questo, la difficoltà di mischiare le cose determina la stasi di una città seduta stanca. L’innovazione e la vitalità nascono dalla contaminazione reciproca dei vissuti delle parole e degli interessi.  

Dare voce ai sommersi, a chi ha il futuro scritto nel quartiere in cui nasce, nel soprannome del padre, che prima era del nonno. Lei lo ha fatto in un romanzo, ma la sinistra, di cui fa parte, non dovrebbe avere questa come vocazione. E perché l’ha persa?

Il libro, se vogliamo semplificare, parla di quel 52% di cittadini che a votare non ci è andata. Per disincanto, per rancore, perché non ne vedono e colgono l’utilità, perché’ semplicemente nelle vite di queste persone la politica e il pubblico non ci sono e quando ci sono assumono i connotati di un problema. Il tema quindi non è solo della sinistra ma di tutto il sistema politico che si fa bastare e che si conforma agli interessi più forti dell’altro 48%. La sinistra e quel che resta della intellettualità è dentro questa crisi, come l’ubriaco di Watzlavich continua a cercare le chiavi di casa sotto il lampione e non perché le abbia perse lì ma perché lì  c’è più luce. Ci vuole coraggio, idealità, motivazione e curiosità, ci vuole umiltà e capacità di ascolto per ritrovare un canale di comunicazione con mondi che soffrono per mancanza di opportunità lavoro futuro e nel soffrire producono odio. Braccati e cacciatori si confondono riproducendo costantemente il meccanismo del capro espiatorio a rotazione. Purtroppo non sempre la sinistra ha voglia e determinazione per intraprendere un cammino del genere. Nel libro alla fine contano le storie minime, conta l’affetto e la solidarietà del gruppo, forse indagare questo straordinario patrimonio di umanità istintiva potrebbe essere una buona traccia da seguire.  Anche per la sinistra.

Vorrei che ci soffermassimo sulla “forma romanzo”. Raccontare una storia, dare un nome, un’anima a personaggi certo di fantasia ma in cui in molti si possono riconoscere o riconoscere magari un amico, un vicino etc., crea emozioni ed empatia molto più di ponderosi saggi e fredde analisi. Al di là delle capacità personali, non crede che i politici dovrebbero più se non raccontare quanto meno appassionarsi e farsi coinvolgere da storie come quelle raccontate nel suo romanzo?

La forma romanzo ha una potenza e una libertà che altre forme espressive non danno. Soprattutto le forme e i linguaggi della politica rischiano spesso l’effetto bolla autoreferenziale. La verità non è nella storia che appunto rimane una storia verosimile ma nei personaggi nei tratti umani nel linguaggio dei protagonisti. La politica appare spesso distante dalla nuda vita dalla durezza delle relazioni sociali dall’assenza di speranza che pervade parte importante dei settori popolari. Sarebbe necessario cambiare sguardo e priorità. Ne va della credibilità residua di cui godiamo.  

Spesso si sente dire: bisogna portare la cultura nelle periferie. Ma andando indietro nel tempo, una esperienza che è rimasta nella memoria collettiva è l’Estate romana inventata da quello straordinario intellettuale ed amministratore che fu Renato Nicolini. La forza di quell’esperienza fu portare le “periferie” nel centro della città, in quei luoghi che hanno fatto la storia della Capitale. Non è questa la strada da riprendere?

I protagonisti del romanzo vivono a 25 km dal centro non conosco la loro città e quando si recano in città lo fanno con atteggiamento predatorio.  Il tema è tutto qui: la distanza fisica e mentale le fratture tra le diverse parti che compongono L ambito urbano che non è più unitario. Le distanze e le disuguaglianze sembrano abissali. Servirebbe uno sguardo folle creativo e visionario come quello di Nicolini per riempire questi vuoti. E portare il popolo al centro della scena è sempre una buona scelta. Una buona scelta di sinistra.

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