di Vittoria Maggini
La capacità de “L’amica geniale” di tenere chiunque incollato allo schermo
“L’amica geniale” è l’adattamento televisivo firmato Rai dei quattro romanzi scritti da Elena Ferrante. Il successo mondiale di questa serie parla già da sé: è stata venduta in 162 paesi raggiungendo un successo mondiale, ricevendo anche il Premio Flaiano e il Gotham Independent Film Award nel 2019. Vorrei innanzitutto premettere che non ho letto i libri, e mentre da un lato mi rammarico del tempo che sempre meno dedico alla lettura, dall’altro fare tabula rasa mi ha permesso di apprezzare di più la serie, non potendola costantemente paragonare alla storia originale.
Questa serie tv racconta l’amicizia tra Lila e Lenù, due bambine che vivono in un piccolo rione appena fuori Napoli e nel corso delle stagioni segue la loro crescita, che le porta ad affrontare le difficoltà di essere donne nell’Italia degli anni ’50, in un mondo governato da uomini, a partire dalle difficoltà d’accesso all’istruzione, a tutto ciò che riguarda l’ambito lavorativo e il periodo storico retrogrado. La capacità di questa serie di creare un legame emotivo con il telespettatore è spiazzante.
Costantemente, mentre guardavo i primi episodi, non potevo non pensare a come la realtà vissuta da Lenù e Lila, pur sembrandomi così lontana, ritraesse una società in cui i miei stessi nonni hanno vissuto, in un periodo che non permetteva a nessuno, tantomeno alle donne, di dimostrare le proprie capacità. Ma “L’amica geniale” è soprattutto una storia d’amicizia e di solidarietà femminile tra due bambine, poi donne, che pur vivendo una realtà alquanto amara, cercano di raggiungere i propri obiettivi con nient’altro che l’aiuto l’una dell’altra.
“Inventing Anna”, la vera storia della finta ereditiera tedesca che ha ingannato l’élite newyorkese
Quella di Anna Delvey, alias di Anna Sorokin, è una storia che ha fatto scalpore nei giornali di tutto il mondo, mentre in Italia pochi conoscevano la vicenda fino all’uscita su Netflix di “Inventing Anna”, miniserie creata da Shonda Rhymes, che noi giovani conosciamo per essere la mente dietro ad alcune delle drama fiction americane per eccellenza: “Grey’s Anatomy”, per dirne una. Ebbene, anche se la Rhymes non si è discostata dal suo tone of voice narrativo abituale un po’ trash, questa volta la storia che ha raccontato non è di finzione, anche se spesso lo sembra.
Tutto è iniziato nel 2019, quando la giornalista Jessica Pressler (nella serie si chiama Vivian Kent) pubblica un articolo sul New York Magazine, dal titolo “How Anna Delvey Tricked New York’s Party People”, con protagonista Anna Delvey, una ragazza di soli 26 anni condannata a 12 anni per frode. Il suo vero nome è Anna Sorokin, di origini russe, trasferitasi con la famiglia in Germania molto piccola. Dopo un tirocinio per una rivista di moda a Parigi, arriva nella grande mela pronta a conquistarla attraverso la realizzazione del suo sogno: l’Anna Delvey Foundation, un club esclusivo newyorkese per i migliori artisti di New York. Anna però, di origini umili, sapeva che entrare far parte dell’élite di Manhattan sarebbe stato impossibile con il suo background. Ha quindi inventato il personaggio di Anna Delvey, una ricca ereditiera tedesca, e attraverso fascino e persuasione, è riuscita a convincere alcune tra le più importanti banche di New York ad investire nel suo progetto.
Scriveva Pressler alla fine del suo pezzo: «Anna aveva scoperto l’anima di New York e aveva capito che distraendo le persone con oggetti luccicanti, con grossi rotoli di banconote, con i segni della ricchezza, mostrando a quelle persone i soldi, quelle persone sarebbero diventate praticamente incapaci di vedere qualsiasi altra cosa». Una storia che non sembra vera, se non fosse che la stessa Shonda Rhymes ha conosciuto e visitato numerose volte in prigione Anna Sorokin, per costruire un personaggio verisimile. Infatti Netflix l’ha ricompensata con più di 300mila dollari, che Sorokin ha detto restituirà alle persone che ha derubato. Intanto, ho fatto un giro sul profilo Twitter di Anna e dal quel che ho visto, vi assicuro, che Shonda Rhymes ha fatto un buon lavoro.
Peccato solo che, mentre l’obiettivo della Pressler era smascherare i giochi di potere dell’élite newyorkese e delle grandi banche americane, leggo che il pubblico è più interessato a glorificare o crocifiggere Anna, perdendo un’occasione di riflessione sociale ben più ampia.