di Alessia de Antoniis
Una bambina senza testa” di Antonella Santuccione e Maria Teresa Ferretti è un viaggio in un mondo sconosciuto: la mente di chi, quella mente come noi la conosciamo, non l’ha più.
Quando ci si ammala di una malattia mentale grave, quella che cambia non è solo la vita dei pazienti, ma quella di tutte le persone coinvolte. Una differenza importante rispetto ad altre patologie, è che per lo Stato, quasi sempre, i pazienti non rappresentano un costo sociale diretto in quanto già fuori dal ciclo produttivo, perché in pensione, e perché ad accudirli sono i familiari. Quasi sempre donne.
Il libro “Una bambina senza testa” (Edizioni Mondo Nuovo) è un coro a due voci che narra della malattia, ma anche della vita delle persone coinvolte. Un libro che parla di tragedie in modo gentile, senza pietismi ma con profondo rispetto. “Una bambina senza testa” parla di vita, perché anche ammalarsi e morire vuol dire vivere. Soprattutto, “Una bambina senza testa” è un libro che parla al femminile, perché laddove pensi non ci possano essere disuguaglianze, essere donna rappresenta un fattore di rischio.
Il libro, che diventerà una serie televisiva in dieci episodi, ha due voci narranti. Una è quella di Antonella Santuccione, neuroscienziata di fama internazionale, annoverata tra le “Top 100 Women” in Svizzera, che racconta storie di vita, uniche e al contempo universali, di persone affette da malattie neurodegenerative. Un racconto affascinante che, se non parla alle nostre esperienze personali, parla alle nostre paure per una sorte che può toccare a chiunque. Perché tra la nascita e la morte, chiunque può invecchiare e si può ammalare. Anche “ammalare di testa”.
La seconda voce è quella di Maria Teresa Ferretti, neuroscienziata esperta in Alzheimer e medicina di genere.
Antonella e Maria Teresa hanno fondato il Women’s Brain Project (WBP), un’organizzazione no-profit che si occupa dell’influenza che il nostro DNA e i ruoli di genere assunti all’interno della nostra società possono avere sulle malattie del cervello e della mente. Insieme, si occupano di medicina di precisione, ovvero di una medicina che riconosce l’individualità e la specificità di ogni paziente per offrire terapie differenziate.
Antonella Santuccione è una donna, medico e ricercatrice, formatasi nel mondo delle cosiddette facoltà STEM, che ha lasciato l’Italia per specializzarsi e non è più tornata. Ma non ama definirsi un cervello in fuga. Di sé preferisce dire “Sono un cervello che ha capito che altrove c’era ancora di più. Supportata da un mio docente universitario che mi ha aiutato a fare quasi tutta la specializzazione all’estero, sono partita per sei mesi. E non sono tornata più”
Antonella, il Women’s Brain Project (WBP) è stato fondato da due donne, unite per una scienza al servizio delle donne. Lottiamo tanto per l’uguaglianza tra uomo e donna, invece la scienza e la natura ci dicono l’opposto. Non siamo uguali, ma abbiamo lo stesso diritto alla salute. Solo che con modalità diverse…
Assolutamente sì. Tant’è che si parla di equità e non di uguaglianza. Nessun individuo è uguale all’altro. A prescindere dal sesso e dal genere. Quando dobbiamo comprendere le cose per grandi numeri, il sesso è il primo discriminante per categorizzare e capire le malattie. Ci sono malattie più maschili e altre femminili. Come sintomatologia, come progressione, come diagnostica, come cura e come fattore di rischio, le malattie si differenziano tra uomo e donna. La donna, come genere, per il fatto di prendersi cura degli altri, di essere una care giver, è predisposta a un maggior rischio non solo di depressione, ma addirittura di demenza. Perché l’isolamento sociale è un grande fattore di rischio per la demenza senile. Questa è una delle conseguenze che potrebbe avere la pandemia. Un altro fattore di rischio è l’educazione. Più sei istruito e meno rischio avrai in età tarda di avere la demenza. Un altro fattore discriminante tra uomini e donne è il pay gap. Le donne arrivano in età avanzata con una minore pensione e quindi con una minore capacità di accesso alla cura. E, per il fatto che ci sono più vedove, non hanno il cosiddetto care giver maschile. Il fatto di essere sole, vedove, con una pensione bassa, fa sì che l’accesso a certe cure sia più difficile. Sono dati OCSE.
E non solo ci sono più donne con la demenza, ma più donne istituzionalizzate, ossia più donne finiscono nelle case di cura. E a loro viene prescritto un maggior numero di antipsicotici rispetto ai maschi. L’antipsicotico è un indicatore approssimativo di una cura scarsa, perché un antipsicotico, oltre a mitigare certi sintomi, spegne il cervello. Quindi sempre più donne finiscono abbandonate nelle case di riposo sotto psicofarmaci.
Fin dal Medioevo le donne con patologie psichiatriche venivano esorcizzate. Ancora fino alla metà del secolo scorso, donne con depressione post partum, lesbiche o che rifiutavano di sottostare a leggi patriarcali, finivano in manicomio. Mi sembra che quell’approccio sopravviva…
Considera che la medicina è una scienza moderna. Avrà circa centocinquanta anni. Paradossalmente la medicina moderna ha avuto una grande spinta con le ricerche effettuate nella Germania nazista, che si rapporta ad un modello maschile. In realtà la medicina va riscritta dalle mani delle donne. Ora dobbiamo iniziare a scrivere il sintomo al femminile e la malattia al femminile. Per secoli le donne sono state curate da medici maschi. Ci sono studi che dimostrano che se tu appartieni ad un certo gruppo etnico o sociale, nello studio del problema avrai più a cuore la tutela della tua minoranza. Un medico nero si preoccuperà molto di più dei neri. Un medico donna si preoccuperà maggiormente di una donna. È umano. Ecco perché è importante che anche le minoranze abbiano rappresentanti all’interno delle soluzioni cliniche e farmacologiche e dei relativi studi.
Il cervello è un organo complicato da studiare. Anche una biopsia è un’operazione complessa. Il WBP sostiene l’uso dei biomarcatori e della medicina di precisione, che hanno avuto successo in oncologia. Porteranno soluzioni anche per l’Alzheimer o per altre malattie neurodegenerative?
Sì. La neurologia è oggi dove si trovava l’oncologia vent’anni fa. I biomarcatori nell’oncologia hanno fatto strada e ci hanno insegnato, ad esempio, a non curare il cancro in base all’organo. Ora non c’è più il tumore alla prostata o al seno. Ci sono antitumorali che vengono utilizzati in base alla natura della molecola trovata nel tessuto. Prescrivere un farmaco in base alla molecola coinvolta e non solo all’organo malato, comporta una probabilità di riuscita della cura maggiore. Con i biomarcatori riesci a fare una chemioterapia estremamente personalizzata. Dobbiamo fare lo stesso in neurologia. Nella neurologia purtroppo il sintomo si assomiglia. Nonostante la patologia sia completamente diversa, all’inizio un paziente con l’Alzheimer, uno con il Parkinson o con la sclerosi multipla, potrebbero avere gli stessi sintomi. Ad esempio la depressione, un decadimento cognitivo, oppure cadute frequenti. L’Alzheimer, soprattutto nelle donne, si appalesa spesso, nella fase iniziale, come una patologia di tipo depressivo. Quindi una donna viene curata per tre anni con gli antidepressivi, per poi scoprire che è un Alzheimer. La stessa cosa avviene per il Parkinson, che potrebbe manifestarsi con delle allucinazioni che però appartengono anche alla schizofrenia tardiva, alla depressione nella fase maniacale o alla demenza. Quindi sintomi simili per patologie cerebrali completamente diverse. Per questo senza i biomarcatori noi facciamo una medicina di superficie e superficiale. Con la medicina di precisione e i biomarcatori riesco a fare diagnosi nella fase precoce. Prima intervieni e più possibilità hai di dare una buona qualità della vita alle persone affette da certe patologie. I biomarcatori saranno la rivoluzione nella neurologia e nella psichiatria. La neurologia avrà nei prossimi dieci anni una grande evoluzione.
Da un lato abbiamo i costi sociali, dall’altro i ricavi dalla vendita di farmaci. È redditizia la ricerca sulle malattie mentali?
La ricerca in ambito neurologico è molto complessa ed è un settore dove il ritorno degli investimenti è minimo e molto rischioso. Quindi pochi soldi vanno nella ricerca in questo campo.
Chi è affetto da queste patologie, inoltre, non si può organizzare come nella lega contro il cancro, scendere in piazza per andare a parlare ai politici e chiedere una tutela. Sono persone senza voce. Chi ha malattie che riguardano il cervello, non ha energia, non ha lucidità nella fase acuta. Una persona con la depressione non si alza dal letto per andare a protestare.
Come si finanzia WBP?
Innanzitutto con il lavoro dei volontari. Cinquanta scienziati sparsi in tutto il mondo che offrono il loro tempo ed il loro sapere a WBP. Poi beneficiamo di donazioni, sponsorizzazioni e collaborazioni scientifiche in tutto il mondo.
Un paziente affetto da malattie neurodegerative può far ricorso al suicidio assistito?
Un medico fa di tutto per sostenere la vita. Poi entriamo nel campo delle scelte individuali. Ci sono persone che credono in un dio sofferente su una croce, ma anche persone che hanno un credo diverso. Ognuno ha il diritto di esercitare la sua libertà di scelta. Una persona può pensare che per lei, in quel momento, quella che vive non è più vita. Ognuno di noi vorrebbe morire nel sonno, ma c’è chi non ha questa fortuna e affronta sofferenze atroci. Ma il fine vita è una scelta individuale.
Un malato di SLA, ad esempio, può venire in Svizzera e praticare il suicidio assistito. Un malato di Alzheimer, ad esempio, potrebbe fare la stessa cosa?
No, loro non sono in grado di approcciare a queste organizzazioni che hanno dei protocolli etici avanzatissimi. Devi essere capace di intendere e volere al momento della richiesta. Se c’è il sospetto di una depressione o di una demenza non si può assolutamente procedere all’accesso a queste strutture.