di Rock Reynolds
Vertiginose scogliere di basalto nero sopra le quali si avventurano solo ciarlanti colonie di uccelli migratori e contro le quali si abbatte la furia mugghiante dell’oceano, cieli dai colori cangianti che durano lo spazio di un respiro, brughiere sferzate dai venti gelidi dell’Artico al punto che vi crescono solo muschi e licheni, magro sollazzo per qualche cavallo selvatico, tante pecore e il raro pastore. Ecco l’Islanda, terra in larga parte disabitata e inospitale. Di quando in quando, sulla costa, sorge un villaggio di pescatori e, all’interno, si scorge una casetta solitaria.
Con una popolazione di circa trecentocinquantamila abitanti e un territorio grande quanto quattro Sicilie messe insieme, il senso di isolamento cresce a dismisura, acuito da condizioni climatiche quasi perennemente avverse e, comunque, talmente variabili da favorire inevitabilmente una certa instabilità dell’umore. I paesaggi di quest’isola lontana hanno un che di naturalmente fiabesco. Mai come in Islanda si avvertono la forza soverchiante della natura e la pochezza dell’uomo al suo cospetto. Il confronto è impari e la bellezza dei luoghi spezza il fiato. Ma non si può certo dire che si percepisca grande letizia nell’aria: l’islandese non è felice e probabilmente non può esserlo. Il che non significa che non lotti con tutta la sua forza e il suo ingegno per superare gli ostacoli quasi insormontabili che il suo territorio gli impone fin dalla nascita.
Anche per questo, l’Islanda si è creata la meritata nomea di paese delle arti: oltre al lavoro e all’amore, magari allo sport, cosa può esserci? La capitale Reykjavík da sola assorbe due terzi dell’intera popolazione nazionale e rappresenta un microcosmo del campionario umano di vizi e virtù. Ecco perché questo paese, tutto sommato scansato per molti decenni dalle rotte turistiche internazionali, ha finito per rappresentare un faro di attrazione intrigante per molti, soprattutto all’indomani della grave crisi finanziaria del 2008 che ha rischiato di far inabissare la nazione nelle gelide acque dell’Atlantico settentrionale. L’Islanda è uscita a testa alta da quel baratro e ha fatto fronte comune per garantire ai turisti prezzi più accessibili e proposte intriganti sul piano culturale, non solo naturalistico. Si spiega anche così il numero impressionante di librerie, gallerie d’arte e locali in cui si fa musica dal vivo, anche se va detto che la passione locale per la creatività era sentitissima anche prima del crollo dell’economia.
È in tale contesto che si collocano i grandi scrittori contemporanei di questa piccola nazione che non temono di confrontarsi con i colleghi provenienti da luoghi meno periferici. Se è noto che l’Islanda vanta un premio Nobel per la letteratura, Halldór Laxness, il narratore locale per eccellenza, non tutti sanno che è soprattutto nel noir che gli scrittori islandesi si stanno facendo valere a livello planetario. Ma cosa ci sarà di tanto fosco da raccontare in un paese così piccolo e scarsamente popolato? È presto detto: l’isolamento e l’estraniamento, da un lato, e, dall’altro, la convivenza forzata su questo enorme scoglio nel mezzo dell’Atlantico – una sorta di luogo dimenticato, se non maledetto, da Dio e per questo colonizzato dall’empio genere umano – non possono che preludere a sfoghi di violenza e a episodi di inquietante atrocità. Perché la lotta tra bene e male non conosce confini. Naturalmente, ci si mettono pure alcol e stupefacenti, in grado di raggiungere anche i luoghi più isolati del mondo e di alimentare un commercio per molti lucroso e per altri devastante.
Non stupisce, dunque, che un autore come Arnaldur Indriđason si sia ritagliato un posto di primo piano nel gotha del thriller internazionale, addirittura co-sceneggiando il film Reykjavík-Rotterdam e prestando il soggetto di un suo fosco romanzo, Sotto la città, all’ancor più cupa pellicola Mýrin. Accanto a lui si sono comunque fatti un nome di tutto rispetto Viktor Arnar Ingólfsson e Vilborg Yrsa Sigurðardóttir e, soprattutto Ragnar Jónasson. La capacità di quest’ultimo di creare vicende drammatiche e allo stesso tempo credibili, mantenendo alta la tensione narrativa, mi ha colpito fin dal suo primo romanzo apparso in Italia nel 2018, L’angelo di neve, l’esordio di una serie fortunata. Jónasson si è costruito una solida reputazione traducendo in islandese le opere di Agatha Christie e immagino che abbia fatto tesoro degli insegnamenti della madre del giallo classico, per quanto le sue storie siano più incentrate sulla psicologia dei personaggi e sulle banali difficoltà della quotidianità che sui meccanismi a orologeria che hanno reso celebre la maestra inglese.
La signora di Reykjavík (Marsilio, traduzione di Valeria Raimondi, pagg 239, euro 17) si stacca dalla serie Misteri d’Islanda, tradotti in una fortunata e omonima serie televisiva avente per protagonista il detective Ari Þór, un ex-studente di teologia che esercita quasi per caso la professione del poliziotto nel paese di pescatori di Siglufjörður, nel nord dell’Islanda, ma mantiene inalterati tutti gli elementi narrativi che hanno reso celebre Ragnar Jónasson in mezzo mondo.
Ne La signora di Reykjavík,Jónasson indaga nell’animo di una poliziotta che, nell’ultimo giorno di servizio prima di ritirarsi suo malgrado in pensione, si vede scorrere davanti il dramma di una vita difficile, le complicate relazioni con i colleghi e la tragedia della perdita della figlia, tentando di riconciliarsi con quel lutto mai del tutto elaborato, attraverso un’indagine finita nel dimenticatoio: la morte di una giovane donna russa – perché, manco farlo apposta, anche sulle coste lontane dell’Islanda cerca rifugio chi in patria non ha voce, futuro, diritti – a cui non è stato dato il giusto peso, proprio perché considerata una cittadina di serie B. Hulda – così si chiama la detective costretta da un superiore insensibile a un pensionamento che avrebbe rimandato con piacere – lotta contro il tempo, le ultime 24 ore, e contro i demoni del suo stesso passato.
Forse, di per sé, nulla di nuovo, ma sono la personalità narrativa dell’autore e la sua capacità di creare atmosfere che rispecchiano appieno il senso opprimente di quelle lande a rendere La signora di Reykjavík un ottimo noir. Basta spulciare qua e là tra le pagine per rendersene immediatamente conto. “Quel tempo aveva un effetto deprimente sul suo umore. Di regola, Hulda non si lasciava influenzare dall’imprevedibilità del clima, ma si scoprì a desiderare che, fra tutti, quell’ultimo giorno della sua vecchia vita potesse iniziare in modo più promettente.”
Se, dopo essere arrivati in fondo a La signora di Reykjavík, non vi verrà voglia di andare a cercare su Google qualche foto dei luoghi indicati con passione da Ragnar Jónasson, sarà solo perché lo avrete fatto pagina dopo pagina, magari progettando un viaggio da quelle parti.