di Alessia De Antoniis
“M il figlio del secolo” replica al Teatro Argentina di Roma fino al 3 aprile. Lo spettacolo è tratto dal romanzo storico di Antonio Scurati.
Dalle novecento pagine del libro di Scurati, tre ore di grande teatro. Uno spettacolo circolare, che finisce dove era iniziato, sulle stesse immagini, con le stesse parole, quando “nessuno voleva addossarsi la croce del potere”.
In scena diciotto attori che danno vita a tenta quadri. Sul palco Massimo Popolizio e Tommaso Ragno sono le due facce del dittatore. Sul fondale foto storiche si alternano a visioni felliniane e pubblicità futuriste. Un teatro che si fa cinema mentre sul palco dell’Argentina i capitoli del libro, trasformati in quadri, diventano set grazie alle scene di Marco Rossi ai costumi di Gianluca Sbicca, alle luci di Luigi Biondi e ai video di Riccardo Frati.
Se “M il figlio del secolo” apre con il quadro intitolato “Arditi”, nessuno è più ardito dello stesso Popolizio: una sfida drammaturgica, la sua, vinta raccontando la tragedia dell’ascesa della dittatura fascista con la leggerezza della commedia. Con un dittatore, M, che Popolizio drammatizza come Chaplin fece con Hitler.
Scrive Scurati: “attore, teatrante, commediante, fingitore, istrione, guitto, buffone, impostore. Questi epiteti sono stati attribuiti al dittatore per spiegare il suo avvento al potere. Come se il fascismo tutto non fosse stato altro che una recita di successo e il suo capo un abile capocomico”.
E se davvero la storia è fatta di corsi e ricorsi, come si fa a non vedere in Mussolini un protagonista di quella tradizione istrionica che parte da Nerone e la sua cetra e arriva al comico fondatore di un partito dei nostri giorni. Quasi Roma fosse, vittima impotente di una maledizione divina, un eterno palcoscenico per teatranti pericolosi.
Strabiliante come Tommaso Ragno ci faccia dimenticare la sua differenza con la fisionomia di quel Mussolini che “marcia su Roma in un vagone letto salutato da molti come il salvatore della Patria”. Quel Mussolini “di origine plebea, zingaro della politica, autodidatta del potere che a soli trentanove anni è il più giovane presidente del Consiglio della storia, senza nessuna esperienza di governo né di amministrazione pubblica, entrato alla Camera dei Deputati solo sedici mesi prima”. Quel Mussolini che, figlio del fabbro, figlio del secolo, ha salito le scale del potere.
Non richiama il duce marziale dei filmati della propaganda fascista, neanche Massimo Popolizio che, vestito con ghette, bastone e bombetta, si erge a guisa di domatore di belve, capobanda di una masnada di delinquenti politici: “li disprezzo, ma è con questi scarti che si fa la storia”.
Sul palco dell’Argentina scorre veloce la storia di un “terrore che si estende ovunque, sottile, uniforme, in un velo di brina” mentre la classe dirigente era “come i dottori della Chiesa che discutono del sesso degli angeli con i barbari alle porte”, come dirà anni dopo Pietro Nenni.
M come marketing per un popolo di stolti, disposti a “scambiare libertà democratiche con la promessa della sicurezza”; in un Paese dove ordine, gerarchia, disciplina sono parole che hanno più fascino di “libertà”. Dove la paura diventa odio sociale: quella paura che “spinge a baciare le scarpe di un nuovo padrone purché venga dato anche a loro il potere di avere qualcuno da calpestare”. Con un popolo che “quando sente parole difficili, si emoziona”, che non dice “dateci la libertà, ma levateci dalle baracche”. “Guardali, ascoltali – recita M – non capiscono che cosa stia accadendo. Né gli uni né gli altri non capiscono che cosa gli sto facendo. Continueranno a combattere senza sapere che abitano già una casa di morti. Gattini ciechi avviluppati in un sacco”.
“M figlio del secolo”: uno spettacolo corale per raccontare il partito di massa della terra di mezzo, dove “il quadro generale è complesso” e “si tratta solo di alimentare l’odio mentre destra e sinistra non ci sono più”. La caricatura del “terribilista di Forlì”, “il selvaggio di Romagna” che, indossata la grisaglia grigia, va a occupare l’ultimo scranno a destra del Parlamento, quello che nessuno aveva mai occupato, mentre “una quiete vigliacca cala sull’Italia”.
“Se il fascismo è stato una mera associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere”, riecheggia in teatro il monologo di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925. Ma nessuno si alza ad arrestare il figlio del secolo, mentre l’aula risponde con un unico urlo rispettoso ed entusiasta: “tutti con voi, presidente”.
In politica si recita a soggetto: questo potrebbe essere il titolo di una piéce “sulla supremazia tattica del vuoto, dove il leader non deve avere principi, idee, obiettivi propri. Deve essere un uomo cavo, vaso vuoto pronto a ogni piroetta e giravolta funambolica, a ogni tradimento”. Se non avessimo il Parlamento meno istruito della storia repubblicana, potremmo pensare che i nostri rappresentanti abbiano letto il testo di Scurati.
“È struggente la cecità della vita riguardo a se stessa. Alla fine si torna all’inizio. Nessuno voleva addossarsi la croce del potere. La prendo io”.