Il lutto di un paese incenerito: Pasolini, Moravia e un’Italia ormai scomparsa
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Il lutto di un paese incenerito: Pasolini, Moravia e un’Italia ormai scomparsa

Due giganti del Novecento raccontati in un libro dallo scrittore Renzo Paris, comune amico e testimone di un’epoca irripetibile. Con un’intervista all’autore

Il lutto di un paese incenerito: Pasolini, Moravia e un’Italia ormai scomparsa
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

1 Aprile 2022 - 15.48


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Il centenario della nascita di Pierpaolo Pasolini ha suscitato una valanga editoriale. Continuano ad apparire libri intorno alla sua figura, e, bisogna dire, non tutti necessari. Necessario, per più d’una ragione, è invece il volume che Renzo Paris ha dedicato al ricordo dell’artista di Casarsa ed al comune amico, Alberto Moravia: Pasolini e Moravia. I due volti dello scandalo (Einaudi, p.225, € 15.50). L’autore ha ben titolo di arrogarsi il diritto di parlare dei due giganti del secolo trascorso: ha pubblicato memoir su di loro, curato raccolte di articoli e scritti politici moraviani; soprattutto, in gioventù ha avuto la ventura di meritarsi l’amicizia di entrambi, da lui considerati come una “famiglia elettiva”, ed è stato lucido “spettatore di tanti momenti diversi della loro vita”. Un ruolo consapevolmente svolto sin dall’inizio: “Volevo essere il testimone invisibile di due degli autori della grande letteratura del Novecento. Mi appassionavo alle loro feroci dispute, appuntavo in un diario le loro conversazioni. Con loro ero come a teatro”. È la magia di quel “teatro” che Paris si propone di rendere con questa sua “affabulazione critica”, colma di un affetto ancora vivo verso i suoi mentori e puntellata da colti riferimenti che arricchiscono ricordi già fascinosi, la rappresentazione di un’amicizia ventennale – probabilmente nata nel salotto del dentista romano Weiss, da cui erano in cura molti letterati – tra “l’ariano” Moravia e “l’attico” Pasolini (secondo la fulminante definizione di Enzo Siciliano), un’amicizia il cui “terreno di scontro era, in fondo, l’intelligenza”.

Pure, non è impresa agevole raccontare questo sentimento “verace”, “curioso”, financo “ambiguo”. Un legame inscritto con suggestiva allusione nel solco della tradizione dell’amicizia tra artisti, che nelle nostre lettere trova in Dante e Guido Cavalcanti uno degli esempi più luminosi, caratterizzato da immensa stima e da un “vero, profondo, sincero affetto, come tra fratelli”, ma anche dal disaccordo pressoché totale su qualunque argomento di disputa: il terzo mondo, l’engagement, il comunismo, il neocapitalismo, il ’68, il femminismo, l’amore, l’aborto, il divorzio, la lingua italiana, il cinema, il calcio. Diversa era la classe sociale di appartenenza, differente lo stile letterario, la pulsione sessuale, il sentire religioso, il modo di stare al mondo. Nei ricordi dell’autore Pasolini e Moravia “non erano d’accordo su niente”; simili a “due poli opposti”, erano “così diversi da non farsi ombra”. Al tempo della guerra fredda gli apparivano come due potenze letterarie, “l’una contro l’altra armata”, che sulle pagine culturali dei giornali si scambiavano colpi “come due pugili” ­– e quella d’un’interminabile match è la metafora scelta per comunicarci un continuo, persino aspro confronto, che tuttavia non intaccò mai un vincolo precario eppure saldissimo, e che talvolta assumeva le sfumature di “un curioso rapporto padre-figlio”, per quanto Moravia fosse piuttosto un “padre difettivo”. Ma erano “due stakanovisti, ottocenteschi nella fatica del lavoro intellettuale e creativo”: dunque ad unirli c’era anche la concezione del lavoro e una dedizione assoluta, totalizzante, alla propria arte.

Predisponendosi proustianamente alla “sofferenza preliminare” insita nella rievocazione del passato, attingendo al nutrito armamentario dello scrittore di razza, Paris evoca con penetrante suggestione le figure dei due antichi amici, raffigurandoli sotto variegate sfaccettature, mai in modo banalmente incensatorio: Pasolini e Moravia avevano caratteri difficili, personalità complesse, erano uniti da una composita rete di sentimenti, e qui appaiono in carne ossa, con i loro pregi e i loro difetti, i loro limiti e le loro idiosincrasie, non come intoccabili miti – basterebbe già tale aspetto a innalzare questo lavoro su tanti altri usciti sull’argomento. In quest’epoca che ha fagocitato ogni valore, azzerato ogni differenza, tutti magnificano Pasolini, persino esponenti di quella destra da lui tanto vituperata, ma questo libro ci ricorda che all’inizio degli anni ’70 egli era completamente solo, le sue opere venivano ignorate dai critici letterari e dagli intellettuali: storicizzare, ecco il senso della memoria.

Naturalmente non mancano gustosi aneddoti di cui l’autore fu testimone, ma i ricordi personali (il primo incontro con i due grandi scrittori; il tragico mattino in cui si apprese la notizia del massacro di Pasolini; la drammatica corsa sul luogo del delitto; il giorno del funerale, nel centro di Roma, con la folla accorsa a dare l’estremo saluto, affamata d’una giustizia che non avrebbe mai avuto; l’ultimo incontro con il poeta) s’intrecciano alle oggettive ricostruzioni delle ultime ore di vita del poeta di Casarsa, dei lunghi viaggi intrapresi dai due amici, delle relazioni umane e professionali della loro cerchia, condotte con l’ausilio di libri e articoli di giornale, perizie giurate e testimonianze, lettere, versi di poesie, resoconti di viaggio. In queste accorate pagine sfilano come ombre incarnate amici e conoscenti: Laura Betti (a cui si deve più d’ogni altro il culto della memoria di Pasolini), Elsa Morante, Ninetto Davoli, Dario Bellezza (struggente il ricordo dei suoi funerali, delle velenose polemiche successive alla morte), Enzo Siciliano, Carlo Emilio Gadda, Bernardo Bertolucci, Paolo Volponi, Mario Monicelli, ed altri. Vi risuona, vivido e concreto, il dibattito culturale di anni lontani, come l’imperdibile capitolo dedicato al boom linguistico scoppiato negli anni ’60, nato dalla fortuna dello strutturalismo francese, eco di una stagione culturale ricchissima, da far sanguinare il cuore per una nostalgia che si dà per assenza a chi non ha avuto la ventura di viverla. Si rievocano gli intrighi del mondo letterario, le guerre sotterranee, le rispettive simpatie e antipatie dei protagonisti di quell’epoca remota, sempre con il filo rosso della storia a presiedere il lucido e coerente lavorio della memoria: gli eventi del ’68, gli anni ’70 e il fenomeno del terrorismo, l’attacco incrociato che Moravia subì da esponenti del Movimento e dal Pci, la famigerata poesia di Pasolini “Il Pci ai giovani” pubblicata sull’Espresso in quel rovente giugno del 1968.

“Se non fosse esistita un’amicizia così stravagante l’avrei inventata, così come avrei inventato i due lucenti eremiti che me l’hanno suggerita”, ammette icasticamente Paris al termine del suo viaggio nella memoria personale e collettiva. Non ce n’è stato bisogno, la vita ha più fantasia dell’arte. Ma accostare Moravia a Pasolini nell’anno del centenario della nascita di quest’ultimo ha un senso preciso. Svillaneggiato, perseguitato in vita e infine ucciso, Pasolini rimane una figura culturale ineludibile; di Moravia, invece, pare essersi smarrito il ricordo. Dopo la morte, in Italia (non così altrove) si è steso su di lui un tombale silenzio, e Paris intende ristabilire una sorta di giustizia morale postuma. Considerato un fascista, anche dal giornale con cui aveva assiduamente collaborato, il “Corriere della Sera”, in realtà era stato pedinato fin dal 1929, l’anno degli Indifferenti, come risulta dalle ricerche effettuate dall’autore, che ha visionato i carteggi della polizia di Mussolini conservati nell’Archivio di Stato, da cui si evince che la regia questura di Roma esercitava un controllo sistematico della sua corrispondenza, che non era iscritto alla federazione fascista dell’Urbe, era anzi considerato sospetto per la sua “linea politica”. Il fascismo censurava i suoi libri, dopo le leggi razziali gli impedì collaborazioni con i giornali, in quanto di famiglia ebraica. Lo scrittore era ateo e la Chiesa mise all’indice i suoi romanzi, ritenendolo un corruttore della gioventù. 

Dunque, nel racconto di questo “ultimo, stupito testimone” del Novecento, Moravia fu un altro uomo solo, proprio come Pasolini. Soli come possono e devono essere i veri, autentici intellettuali. Soli e “scandalosi” come sempre sono i grandi artisti.

In occasione dell’uscita del libro Pasolini e Moravia. I due volti dello scandalo, abbiamo intervistato l’autore, lo scrittore, docente e critico letterario Renzo Paris.

Questo suo libro mi pare rappresenti una sorta di lutto perenne, personale e collettivo, nato dalla convinzione che l’assenza di Moravia e di Pasolini sia stata e rimarrà incolmabile. È così?

Sì, si tratta di un lutto personale e collettivo, della letteratura cartacea e del mondo senza social, lutto anche per i poveri sottoproletari e proletari che oggi si fa fatica a riconoscere come classe. Pasolini e Moravia sono due esempi che hanno sofferto questo lutto. Io ho sempre scritto “quando qualcosa muore”.

Quali sono a suo avviso le ragioni per cui il ricordo di Pasolini è ancora vivo, mentre la figura di Moravia appare marginalizzata, se non rimossa e dimenticata?

Fu la caparbia attività di Laura Betti, in Italia e all’estero, a non permettere che l’atroce massacro di Pasolini fosse dimenticato. Moravia non ebbe quella fortuna e in Italia è meno presente che all’estero, in Francia e negli Stati Uniti.
Quali delle qualità dei due grandi artisti difettano di più agli scrittori e agli intellettuali odierni?
L’essere testimoni del loro tempo, alla ricerca della verità, privata e pubblica.

Rifacendoci al titolo del suo libro, Pasolini e Moravia continuerebbero a dare “scandalo” anche nell’epoca in cui viviamo?
Erano considerati due autori dello scandalo, personale e ideologico. Oggi i magistrati non sembrano interessati più di tanto alla vita privata e alle idee di un autore. C’è però attiva negli Stati Uniti la “cancel culture”.
Il suo universo letterario, la sua scrittura, devono qualcosa a entrambi? E se sì, cosa?
Entrambi vissero nell’era del cartaceo. Non c’erano i social allora. Oggi, come è noto, il cartaceo è in crisi. Di Pasolini mi piaceva la ferocia gentile, di Moravia l’acuta intelligenza, come ho rivelato nel mio libro.

Secondo lei perché non è stato possibile riaprire il caso sul delitto Pasolini, malgrado i tanti e concreti indizi saltati fuori negli anni?

Tra i tanti misteri d’Italia, quello di Pasolini sarà sempre un “cold case”, per l’incuria della magistratura che se ne occupò.
Qual è il suo giudizio, di critico e di scrittore, sulla letteratura italiana contemporanea?

La vorrei meno di intrattenimento. Mi rendo conto che il Novecento è un mondo perduto, dove la poesia era ancora il sale della terra. Ma non dispero.

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