Da tempo Igiaba Scego, giornalista e scrittrice, è una figura affermata nel nostro panorama culturale. «Somala d’origine e italiana per vocazione», come ama definirsi, le vicende narrate nei suoi romanzi hanno frequentemente per oggetto importanti questioni storiche. In particolare quella dell’Italia coloniale e post-coloniale, accompagnate da calzanti riflessioni legate all’attualità e alla riflessione sui corpi, i corpi delle donne, i corpi neri, i corpi migranti.
Nel 2020, è tornata in libreria con La linea del colore (Bompiani 2020, pp. 384, € 19), un pregevole romanzo storico in cui passato e presente si intrecciano per raccontare una storia al femminile in cui predominano i temi del viaggio, della speranza e della spasmodica ansia e ricerca di libertà. In maniera abile ed efficace, la vicenda si muove su più piani narrativi, in cui una donna dei giorni nostri, Leila, si appassiona della protagonista Lafanu, vissuta nella seconda metà dell’Ottocento, cercando di ricostruirne la sua storia decisamente affascinante e complessa. Nel libro emerge un’altra figura femminile, quella di Binti, giovane cugina somala di Leila, che sceglie tenacemente ed ostinatamente di realizzare il lungo e pericoloso viaggio verso l’Italia. Le vicissitudini di Binti ci accostano prepotentemente alla quotidianità drammatica dei migranti africani e delle loro famiglie. Ne La linea del colore i personaggi si muovono non solo tra la Somalia e l’Italia, ma anche negli Stati Uniti, a conferma del fatto di come i confini possano cessare di esistere almeno sulla carta stampata o nei talk televisivi.
Lafanu, è un personaggio fittizio, che nasce dall’unione di due donne afrodiscendenti realmente esistite: la scultrice Edmonia Lewis e l’ostetrica Sarah Parker Remond. Anche in questo romanzo – come in Adua, uscito nel 2015 in cui si narra la storia di una donna matura che vive a Roma da quando ha diciassette anni, giunta nel nostro paese durante la diaspora somala degli anni Settanta – la questione delle cosiddette seconde generazioni e la riflessione su cosa significhi essere italiani, emergono con forza nella scrittura della Scego. In altri termini, l’autrice, a partire dalla sua stessa condizione diasporica, ci invita a riflettere sulla questione dei nuovi europei e dei nuovi italiani. La battaglia di civiltà e di umanesimo nel nostro paese – ha sostenuto Marco Impagliazzo – non va fatta «tagliando la società a pezzi o dichiarando irredimibili alcune sue parti: va operata nell’anima stessa, nel cuore di ognuno di noi. Ecco perché non si è mai condannati a restare “lì dove si è”. La cultura è una forza di cambiamento in positivo mentre la scuola – e non il “sangue” – è il principale agente di costruzione dell’identità».
È la scuola che ci ha reso italiani, realizzando la scommessa di “fare gli italiani” dopo aver fatto l’Italia. Scommessa antica quanto la nostra storia unitaria. Eravamo tutti italiani più di 150 anni fa? Certamente no, avrebbe detto il noto accademico e linguista Tullio De Mauro, scomparso pochi anni fa. La nostra nazione ha camminato verso l’unificazione con il passo lento delle generazioni, in un itinerario che non è ancora del tutto compiuto. Lo ha fatto – e lo fa – principalmente grazie all’educazione. È stata la scuola – soprattutto nel secondo dopoguerra, assieme alla televisione – a forgiare l’identità italiana. Siamo tutti figli della scuola pubblica per la quale – rivendichiamolo fortemente – godiamo di un vasto e diffuso ius culturae. Don Milani amava dire che la scuola «siede tra il passato e il futuro». A scuola si è liberi: liberi dalle paure di un tempo spaesato, dalla pressione mediatica, dalle semplificazioni e dai luoghi comuni, e si scorge il futuro. La scuola trasmette il nostro passato, indaga il nostro presente, ma ci rivela il nostro futuro. È impressionante vedere come, ormai da almeno due decenni, a scuola – e dunque nel futuro – bambini, ragazzi, adolescenti, giovani figli di stranieri, vivano già da italiani, parlino già da italiani, sognino già da italiani. Non saranno squallide manifestazioni xenofobe dei sovranisti nostrani a negarlo.
Dicevamo che Lafanu è un personaggio fittizio, che incarna le vite di due donne afrodiscendenti realmente esistite. Sara Parker Remond era un’attivista abolizionista contro la schiavitù, ha viaggiato negli Stati Uniti e in Inghilterra, e poi è arrivata in Italia, prima a Firenze, dov’è diventata ostetrica, poi a Roma. Una donna nera che ha cercato di essere libera quando era difficile esserlo per i neri (e per le donne) in America o altrove. Sarah è morta a Roma il 13 dicembre 1894, a sessantotto anni. È stata sepolta al cimitero acattolico a Ostiense esattamente cinque file sotto la tomba del poeta August von Goethe, figlio del famoso Johann Wolfgang von Goethe. Edmonia Lewis, che si era convertita al cattolicesimo ed era omosessuale, invece è subito andata a Roma: aveva il sogno di diventare scultrice. Attraverso le loro storie, la Scego ha potuto raccontare di due donne – senza scriverne le loro biografie – che, superando le barriere del colore della pelle e del genere, riescono a fare un viaggio a quei tempi incredibile e a coronare il loro sogno nel nostro Paese. Sono storie molto belle, attraverso le quali l’autrice ha l’intenzione di raccontarne un’altra. Insomma, «Lafanu prende spunto da loro – spiega la Scego – ma non è nessuna delle due, e ho cercato di metterle intorno una serie di personaggi e di conflitti. Nel libro non c’è solo il conflitto del colore, c’è anche quello di classe, il tema del denaro. Lafanu vorrebbe essere indipendente, ma dipende dalle abolizioniste bianche che la aiutano».
La Scego ama paragonare Roma ad una grande torta di nozze. Proprio come una torta, «anche la città è fatta di strati sovrapposti. In ogni strato un’epoca, un evento, una manciata di personaggi famosi e meno famosi. E poi ci sono le sue pietre, i suoi archi, i suoi capitelli corinzi, i suoi scorci, i suoi tramonti. E Roma in ogni strato nasconde tutto questo e molto altro». Non solo le meraviglie dell’antico impero di Augusto, le svettanti torri medievali, le meraviglie del Rinascimento, l’incanto del Barocco. In questa stratificazione a volte, «ed è questa la meraviglia di Roma, spunta fuori spesso anche l’inaspettato. Per esempio, queste due nere che scorrazzavano liberamente uscivano dal cilindro di Roma. Erano venute espressamente per coronare i loro sogni: una voleva diventare ostetrica e l’altra scultrice. E Roma, e in generale l’Italia, le aveva accontentate. Perché Roma all’epoca sapeva farsi amare, sapeva accogliere, era curiosa».
Le due donne abbandonarono il proprio Paese (un Paese che fino alla fine della guerra civile non considerava i neri nemmeno cittadini) per raggiungerne un altro dove «sentirsi finalmente libere, finalmente se stesse. Mi riempiva di orgoglio e anche di stupore sapere che due donne nere si fossero sentite libere proprio in Italia. Un Paese che oggi invece si è incattivito verso chi considera “altro” e si è lasciato andare a un’infelicità che rende crudeli». L’Italia all’epoca «faceva rima con accoglienza, sogno, possibilità, non odio. Edmonia e Sarah erano due viaggiatrici, due donne nere che si erano mosse attraversando oceani (quello stesso oceano che aveva visto tanti neri in ceppi) e città. Donne nere che con i loro corpi avevano bruciato frontiere e pregiudizi». Inevitabile per la Scego pensare a ciò che accade nel Mediterraneo della contemporaneità, tra Europa e Africa. Persone che muoiono sui barconi o nei lager libici, persone a cui viene negato un visto, un viaggio legale con un passaporto e una valigia. I genitori della Scego giunsero in Italia dalla Somalia negli anni Settanta in aereo.
In quegli anni Roma era piena di studenti africani, «così eleganti nelle loro giacche e nelle loro camicie inamidate da far innamorare all’istante ogni ragazza. Studenti a modo sempre in cravatta che studiavano medicina, ingegneria, architettura. Ragazzi come quelli che Pier Paolo Pasolini aveva incontrato negli Appunti per un’Orestiade africana». Ragazzi con negli occhi la voglia di futuro. All’epoca si poteva andare e venire con il viaggio legale. Oggi sono divenuti corpi da controllare, da marginalizzare, su cui perpetrare politiche della separazione». Corpi che per andare da un punto all’altro del globo, «devono farsi torturare, spezzare, violentare. Corpi che finivano prima in un lager e poi su un barcone che poteva arrivare o no dall’altra parte del mare».
Malgrado sia una città soffocata dall’incuria e dalla burocrazia, una città in perenne ricerca del capro espiatorio per scaricarsi la coscienza, Roma ha ancora – secondo l’autrice – «una possibilità di farcela, di rinascere. Se ha potuto dare a Sarah e a Edmonia una nuova vita, forse la può dare anche a sé stessa».Un Paese come l’Italia, al centro del Mediterraneo, e per tanto tempo al centro della storia, «invece di aver paura di questo passato di scambi e mescolanze dovrebbe farlo suo, appendendoselo al petto come una medaglia».
La cittadinanza è un processo, non breve ma nemmeno troppo lungo, in cui la nostra lingua, la nostra tradizione culturale, il nostro umanesimo, forgiano un individuo rendendolo indistinguibile, se non per il cognome e forse per i tratti somatici, da tanti altri concittadini. Ernest Renan diceva che «la nazione è il plebiscito di ogni giorno»: è necessario uno sguardo costruttivo su fenomeni storici di così vasta portata come l’immigrazione. La fortuna è che il nostro sistema formativo è già attrezzato al tempo che viene (e può esserlo ancora di più) per far convergere tanti “loro” in un “noi” più largo, più aperto, più gravido di vita e di futuro. Forse anche il nostro sistema dei media, e il nostro dibattito culturale, dovrebbero attrezzarsi di conseguenza.