di Antonio Salvati
La letteratura della Shoah, o sulla Shoah, nata immediatamente dopo il secondo conflitto mondiale guerra, è vastissima. Appartengono a questa letteratura non solo i saggi storici di carattere scientifico e divulgativi, le testimonianze dirette in prima persona di carattere non narrativo, le testimonianze indirette raccolte da persona diversa dal testimone, ma anche – insieme a tanto altro – la cosiddetta narrativa testimonial e non fictional. All’interno delle varie testimonianze non fictional non è sempre possibile tracciare un confine netto tra ciò che ha vocazione artistica e narrativa e ciò che non lo ha.
Della scrittrice americana Constance Weil Rauch, di padre ebreo tedesco e madre protestante, è uscito da poco in Italia La terra promessa di Clara Farber (Jaca Book 2022, pp. 472 € 29, traduzione letterale dell’originale inedito Clara Farber’s Promised Land), dopo più di quarant’anni dal suo bestseller del 1975, The Landlady, che rappresenta una sorta di memoriale autobiografico narrato in maniera accattivante e al contempo profondamente intenso. Un romanzo, in realtà, dove la Shoah è sullo sfondo, presente ma senza coinvolgere i protagonisti che non furono vittime di sterminio.
L’elemento della tragicità è presente, ma è un filo quasi invisibile, non facile da cogliere seppur presente in ogni pagina. Il filo del senso di perdita di chi ha subito un’ingiustizia che ha condizionato tutta la vita. La perdita al diritto di una vita normale. Infatti, la protagonista del romanzo, Clara, è costretta a lasciare il proprio paese a causa della fede religiosa del padre. In tal senso, si tratta di un romanzo molto attuale perché parla di emigrazione, di sradicamento perché narra delle difficoltà di una famiglia tedesca ritrovatasi ad emigrare per fuggire dalle persecuzioni.
Anche un romanzo sull’integrazione, soprattutto quella di Clara che avviene attraverso la scuola. La sua inclusione – più rapida rispetto a quella degli altri componenti della famiglia – è un processo non breve ma nemmeno troppo lungo, che si realizza attraverso l’apprendimento della lingua. Ernest Renan diceva che «la nazione è il plebiscito di ogni giorno»: è necessario uno sguardo costruttivo su fenomeni storici di così vasta portata come l’immigrazione. Non è un romanzo storico, la grande storia resta sullo sfondo. È a tutti gli effetti una fonte storica perché trattasi di un diario autobiografico.
Esistono tanti libri sulle difficoltà dell’immigrazione e sul dramma degli ebrei durante il nazismo. A rendere accattivante La Terra Promessa di Clara Farber è il punto di vista dominante di una bambina ebrea che si trasferisce negli Stati Uniti nel periodo bellico. I suoi drammi personali sono piccoli ma il contesto documenta in modo inedito e toccante una realtà storica spaventosa. Dopo la Notte dei cristalli (Kristallnacht) – in nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 si realizzò il violentissimo pogrom, organizzato con cura dai vertici della Germania nazista, di una dimensione senza precedenti che coinvolse tutto il territorio del Terzo Reich – oltre 100.000 ebrei lasciano la Germania come possono, mettendo in atto strategie di diverso tipo e scegliendo sempre più spesso la via clandestina.
La speranza di migrare oltreoceano, per molti, si rivela sempre più un’illusione. In realtà, le difficoltà economiche che genera la Grande Depressione unite ai molti pregiudizi nei confronti degli immigrati che permeano la società statunitense, rendono particolarmente impervia la strada della fuga al di là dell’Atlantico. L’amministrazione del presidente Roosevelt e il Congresso degli USA non fanno nulla per modificare il complesso iter burocratico per l’ottenimento dei visti, optando anzi per misure più restrittive.
La vicenda della “St. Louis” – il transatlantico al largo dell’America centrale nella primavera del 1939 con a bordo quasi mille ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste le cui vicende furono seguite con grande preoccupazione dalla stampa internazionale e da un vasto pubblico; gli Stati Uniti non vogliono i rifugiati e la nave è costretta a riparare nuovamente in Europa, e i rifugiati ebrei vengono accolti in extremis da Gran Bretagna, Francia, Belgio e Olanda (oltre 250 di loro troveranno la morte nei campi di sterminio nazisti) – mostra ancora una volta al mondo che gli ebrei europei si trovano, per la maggior parte, in una trappola.
La mescolanza di grande e minuto, di storia e cronaca, di interiorità ed esteriorità favorisce il fascino del romanzo. Emblematiche le pagine in cui si racconta la gita che la classe di Clara fece salendo sul battello per attraversare il porto di New York. Clara pensò a quando aveva solcato quelle stesse acque a bordo della Vulcania, la nave che la condusse dall’Italia agli Stati Uniti.
Ricordava quando il padre le indicava la statua della Libertà, mentre la oltrepassavano. Insieme agli altri bambini, salendo anguste scale di ferro all’interno della statua ebbero accesso all’interno della testa dove esistevano delle finestre dalle quali ammirare il panorama. La maestra chiese a Clara cosa pensasse della poesia di The New Colossus scritta da Emma Lazarus, giovane poetessa ebrea.
Questa poesia, dedicata alla Statua che troneggia al centro della baia di New York e affissa al piedistallo della statua, venne scritta nel 1883 quando a New York da pochi anni iniziarono ad arrivare i primi profughi ebrei, cacciati dalla Russia dopo l’assassinio dello zar Alessandro II. Emma Lazarus, figlia di un ricchissimo mercante di New York e che fino ad allora aveva vissuto una vita protetta dai privilegi della sua classe sociale, assistette con dolore all’arrivo delle navi dei profughi, vide il terribile spettacolo di gente lacera, perseguitata. Alcuni versi recitano:
Datemi i vostri affaticati, i vostri poveri,
Le vostre masse variegate desiderose di respirare libere,
I miserabili rifiuti delle vostre coste brulicanti,
Mandatemi loro, i senza tetto, i percossi dalla tempesta:
Solleverò la mia lampada accanto alla porta d’oro.
Clara comprò una serie di cartoline illustrate con l’immagine a colori della Statua della Libertà e un bel foglio di carta tipo pergamena “adatto a essere incorniciato” sul quale The New Colossus campeggiava a lettere cubitali. A casa, Clara chiese di leggerla. «Che cosa significa», domandò, «questo: ‘poveri’… ‘masse variegate’ ‘miserabili rifiuti’. Si riferisce a noi?». A Clara non piaceva la sensazione comunicata da quei versi. Il padre le rispose: «Clara, questa poesia fu scritta tanto tempo fa, nel secolo scorso. Molti di coloro che si rifugiavano in America a quei tempi non avevano niente. Niente di niente. Soltanto i vestiti che portavano addosso. Erano davvero ‘poveri’. Erano davvero ‘miserabili’. Varcavano l’oceano partendo dall’Irlanda, dall’Italia, dalla Polonia e sì, anche dalla Germania, per sfuggire all’oppressione e iniziare una nuova vita. E sai, la maggior parte di loro trovò proprio questo: una nuova vita. Trovarono lavoro. Crebbero le loro famiglie. E nessuno li sbatté in prigione per il loro credo religioso o politico. In questo momento però,»proseguì il padre, «la poesia parla anche di noi, sbarcati qui tanti anni più tardi. Non perché siamo poveri o senza tetto, ma per colpa di quel folle di Adolf Hitler. Anche noi siamo venuti in America ‘desiderosi di respirare liberi’… proprio come migliaia di persone prima di noi. Lo capisci?» (…) «ciò che la poesia vuole significare – e la Statua della Libertà celebrare – è che l’America ci ha accolto a braccia aperte».
Si trattava senza dubbio di una notevole semplificazione – annota l’autrice – ma, date le circostanze, probabilmente andava bene lo stesso. Più tardi Clara appese il gagliardetto della Statua della Libertà sopra il letto.