Il Teatro Rifredi porta in Italia Abel González Melo.
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Il Teatro Rifredi porta in Italia Abel González Melo.

La Cuba dopo l'Urss e le ferite dei giovani tra fame e prostituzione minorile: è la Cuba di Abel González Melo in anteprima nazionale a Firenze.

intervista a Abel González Melo - Foto Josep Maria Miró
intervista a Abel González Melo - Foto Josep Maria Miró
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15 Maggio 2022 - 20.59


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di Alessia de Antoniis

Abel González Melo chiude al Teatro di Rifredi di Firenze, la manifestazione “Drammaturgia/Drammaturgie”: due settimane di eventi dedicati all’arte di scrivere per il teatro, con tavole rotonde, seminari e incontri con autori. Tra questi Emma Dante, Davide Carnevali e Tindaro Granata.

Fedele al progetto di promozione della drammaturgia contemporanea internazionale, dopo aver fatto conoscere in Italia autori come Josep Maria Mirò e Sergio Blanco, progetto che nel 2019 è valso al Teatro e ad Angelo Savelli un Premio Ubu, il Rifredi dedica quest’anno particolare attenzione all’autore cubano Abel González Melo.

Abel González Melo nasce a Cuba nel 1980. Ha un master in teatro e un dottorato in studi letterari all’Università Complutense di Madrid. È scrittore, regista teatrale, autore per il cinema, docente universitario ed editore. I suoi testi, tradotti in undici lingue, sono stati pubblicati in quindici nazioni e rappresentati sui palchi di tutto il mondo, da Cuba alla Gran Bretagna, dalla Spagna alla Turchia, dall’Uruguay agli Stati Uniti, dal Venezuela al Messico. Da alcuni anni si divide tra Madrid e Miami.

Melo appartiene a quella generazione cresciuta a cavallo tra due secoli, ma soprattutto nella Cuba dopo la caduta del muro di Berlino. Lontano temporalmente dalla Cuba di M26-7, che portò al ribaltamento della dittatura batista e all’ascesa di quella castrista; da quegli anni Sessanta che videro gli oppositori del regime e gli omosessuali chiusi nelle Unidades Militares de Ayuda de la Producción, campi di lavoro spacciati per strutture per obiettori di coscienza. Estraneo anche al periodo grigio, che censurò duramente artisti, scrittori e drammaturghi, non solo per le loro idee contrarie a Castro, ma anche per la loro omosessualità, Melo nasce in quel 1980 famoso per l’Esodo di Mariel quando, durante la presidenza Carter, oltre 125.000 cubani raggiunsero le coste della Florida per sfuggire alla dittatura, ma, soprattutto, alla fame.

“Ho vissuto nella Cuba degli anni Ottanta, una Cuba che era ancora luminosa. Avevamo ancora l’appoggio dell’Unione Sovietica e questo significava che, pur nelle ristrettezze, avevamo da mangiare e di che vestirci”. Inizia così la mia chicchierata con Abel González Melo.

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“Quando sono andato alle superiori, è iniziato il decennio degli anni Novanta e ho toccato con mano il grande cambiamento. Sono cresciuto con mia madre, che lavorava come filologa. Fu allora che mi accorsi che, per far mangiare me e mia sorella, doveva fare altre cose oltre la filologa. Non poteva mantenerci solo col suo lavoro ufficiale. Negli anni Novanta c’è stata anche una recrudescenza del controllo delle autorità e abbiamo imparato a prenderci gioco della censura utilizzando metafore e altri sotterfugi.

Crescendo, ho capito che anche gli anni Ottanta erano stati anni difficili, che preparavano a quello che sarebbe accaduto nel decennio successivo. Le difficoltà esistevano, ma c’era da mangiare, per cui la gente preferiva non farsi domande”.

Nei tuoi racconti ci sono le profonde ferite della tua generazione. Tra queste, la prostituzione minorile e gay. Come sei entrato in contatto con quel mondo?

Con la ricerca che si fa quando decidi di creare un’opera. Quando ho scritto “Chamaco”, avevo 24 anni. A L’Avana vedevo questi ragazzi fermi davanti al Parque Central, al Capitolio Nacional, fermi in attesa di qualcosa che non si capiva cosa fosse. Erano miei coetanei. Ne rimasi colpito. Ho speso tempo e soldi e ho rischiato parecchio. Ho fatto cose che forse oggi non rifarei. Ho rischiato fisicamente per entrare in contatto con queste persone, per capire cosa ci fosse dietro questa attesa, cosa succedeva in un mondo che si intuiva, ma che era immanifesto, come sospeso nel tempo e nello spazio. Ho conosciuto ragazzi che mantenevano la famiglia, la moglie, i figli, prostituendosi soprattutto con stranieri. Ma non solo.

Quando facciamo una ricerca per creare un personaggio, non ci si può limitare alla superficie. Devi andare in profondità se vuoi creare dei personaggi che abbiano delle storie intime specifiche, particolari, coinvolgenti. Devi dar vita a personaggi veri.

A differenza della letteratura, quando scrivi per il teatro crei un personaggio per un interprete. E deve essere un personaggio vivo, che sia riconoscibile, con una sua interiorità, una sua storia. Anche perché, se non dai vita a una persona vera, non si può capire cosa si celi realmente dietro a un personaggio e, soprattutto quando rappresenti il tuo teatro all’estero, non riesci ad andare al di là dell’aspetto folcroristico. Devi rendere i tuoi personaggi universali. Allora verranno riconosciuti ovunque.

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Nella cultura cubana l’omosessualità è uno stigma. Come sei riuscito a pubblicare le tue opere in un Paese governato da una dittatura e con una cultura fortemente machista?

Effettivamente noi veniamo da una cultura omofoba e machista e ci sono pesone che sono state esiliate nella stessa Cuba. Altri sono stati costretti ad andare via. È una situazione che continua ancora oggi: dissidenti costretti a espatriare anche con la complicità di altri Paesi. Ma è in atto un processo di trasformazione. Lo Stato socialista di Cuba non vuole, in realtà, perdere i suoi cittadini.

Per quanto riguarda la mia situazione personale, Chamaco è stato rappresentata nel 2006 al teatro Nazionale di Cuba. Allora già vivevo a Madrid. Per molto tempo, ogni due anni sono tornato a Cuba per dirigere spettacoli, miei o di altri, dove si poteva parlare di determinate tematiche. Con il passare degli anni è stato sempre più difficile poterlo fare. Molte mie opere le ho dovute rappresentare all’estero.

A Cuba la difficoltà nasce quando si approfondiscono tematiche che appartengono alla nostra storia. La mia opera “Fuera del juego” su Heberto Padilla, scrittore censurato, arrestato e che morì in esilio, fui costretto a rappresentarla all’estero. Nel 2014 il mio libro “Epopeya” vinse il Premio Nazionale di Drammaturgia: fu pubblicato e immediatamente ritirato. Ci sono cinque titoli che non posso rappresentare a Cuba. Il teatro, anche se politico, si può rappresentare solo se tratta di problematiche generali non legate alla storia cubana.

Per me è molto importante che la mia opera arrivi a Cuba, perché io non lavoro per il Governo cubano, ma per la gente. Per questo ho presentato molte mie opere a Miami. Miami è la Cuba che non ho, la Cuba dell’esilio con il suo spazio di libertà. Cuba, per me e per molti altri, non è più solo l’isola, ma qualsiasi altro luogo dove noi cubani siamo andati a lavorare. La Grande Cuba è grande perché non è solo uno spazio fisico, ma uno spazio mentale e culturale.

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Eppure la comunità cubana, soprattutto a Miami non è omogenea, ci sono fratture al suo interno…

No, non lo è. Ma tutte queste fratture che si sono sovrapposte durante le diverse generazioni, hanno creato quella che è oggi Miami, ma anche la stessa Cuba: una mescolanza di generazioni. Si sta cercando di arrivare, in qualche modo, a un ideale che nell’isola non c’è. È vero che quelli arrivati negli anni Sessanta vedono con sospetto quelli di Mariel e anche quelli dei Balseros che arrivarono in seguito (Crisi dei Balseros, durante la quale, nel 1994, circa 50.000 cubani raggiunsero clandestinamente, nell’arco di sei mesi, le coste degli Stati Uniti – nda). Però, un po’ per volta, questa mentalità sta cambiando.

Al teatro di Rifredi sono andati in scena in anteprima nazionale “Chamaco”, la tua drammaturgia più nota, e una lettura drammatizzata di “Raccontami tutto da capo

“Chamaco”, con allestimento di Angelo Savelli, è la prima volta che viene rappresentato in Italia. Non è solo un viaggio teatrale, ma anche una pulsione verso Cuba. È un’opera che ha a che vedere con aspetti meno conosciuti e più marginali delle vita di Cuba. È la storia della tenerezza che riesce a sopravvivere in un contesto di orrore. Questa Cuba mitizzata, che per alcuni è considerata un sistema socialista da imitare, per altri è una vera e propria dittatura.

“Chamaco” è un’opera che ho scritto nel 2004, partendo da un’urgenza: il dolore per la morte violenta di mio padre. Affronta il tema della perdita improvvisa di una persona cara, senza aver avuto il tempo di dirle quello che si voleva. È un testo sul non-detto e sul dolore che nasce da questo. Sulla necessità di comunicare e sull’importanza dei legami umani.

“Raccontami tutto da capo” parla della frustrazione, della realizzazione personale e di quali sono le vie che cerchiamo per raggiungere la felicità. Come essere felici è, mai come ora, una domanda urgente.

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