Un grande classico della drammaturgia antica, immortale per la straordinaria suggestione che esercita da oltre due millenni, l’Edipo Re di Sofocle, torna in scena dal 18 maggio al 3 luglio sul palcoscenico del Teatro Greco di Siracusa. Allestito in uno dei luoghi più suggestivi d’Italia con la regia di Robert Carsen, lo spettacolo vede la partecipazione di importanti attori del panorama artistico italiano, come Maddalena Crippa nel ruolo di Giocasta, Giuseppe Sartori in quello di Edipo e Graziano Piazza in quello del cieco indovino Tiresia, impegnati a far rivivere sul palcoscenico la tragica vicenda del re tebano alla disperata ricerca della propria identità, dalla cui sconvolgente rivelazione scaturirà un destino di morte.
Un’imperdibile opportunità per chi ancora non conosce una pietra miliare del teatro di tutti i tempi e per chi desidera rivivere l’emozione di confrontarsi con uno dei testi più profondi della letteratura mondiale, capace di scrutare nei reconditi abissi dell’animo umano alle prese con la propria insanabile ed esiziale fragilità. Il nuovo allestimento riattualizza e rinvigorisce l’impianto drammaturgico per restituire allo spettatore una fruizione piena e consapevole di questa eccezionale, intramontabile opera d’arte.
Per l’occasione abbiamo rivolto alcune domande all’attore, regista e scultore Graziano Piazza, fra gli artisti contemporanei di maggior rilievo della scena nazionale e internazionale. Nato come mimo sotto l’egida di Marcel Marceau, inizia la sua carriera nello sceneggiato televisivo della Rai Il Conte di Carmagnola, a fianco di Vittorio Gassman, per poi intraprendere un percorso teatrale che lo porta a lavorare con i più illustri maestri dell’arte scenica, da Peter Stein a Luca Ronconi, da Anatolij Vassil’ev a Giancarlo Sepe, in un ampio ventaglio di luoghi prestigiosi che vanno dal Teatro Greco di Epidauro in Grecia al Lincoln Center di New York, dall’Odéon di Parigi al Teatro Argentina di Roma, al Piccolo Teatro di Milano. Intensa la sua ricerca anche di sedi non prettamente teatrali con personaggi di forte connotazione contemporanea e sociale, come nel monologo Schifo-DRECK di Robert Schneider, per la regia di Cesare Lievi, o di matrice socio-politica come Marx a Soho di Howard Zinn, per la regia di Giancarlo Nanni, portando l’arte scenica tra bocciofile, piscine, discoteche, birrerie, nelle cucine di mense popolari, chiese sconsacrate, vivendo la necessità della comunicazione attiva di coinvolgimento diretto con lo spettatore. Ricco di soddisfazioni professionali il sodalizio artistico con Viola Graziosi lo ha poi spinto a sviluppare una necessità registica, e svariate sono le apparizioni televisive e cinematografiche (tra cui Il commissario Montalbano per la Rai e il film La Resa, di Luca Alcini, con cui ha vinto il premio come miglior attore allo Short International Film Festival di Gradec). All’impegno sulle scene affianca l’attività di docente presso varie scuole di teatro pubbliche e private, tra cui il corso di alta formazione del Teatro Nazionale di Roma, l’Accademia dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa, il Laboratorio di Prato, l’Accademia Fondamenta.
Quali emozioni ha provato nel tornare a Siracusa, in Sicilia, dove affondano le sue radici e dove l’arte teatrale ha conosciuto alcune tra le vette più alte?
Fin dalla mia infanzia la Sicilia è stata il luogo della scoperta dei sensi, delle emozioni legate ai sensi, della riscoperta del mio sangue siculo, degli affetti, dei parenti, di tante prime volte. Ritornare tutti gli anni ha affinato quelle memorie attive, ha rinsaldato la voragine che si era creata in me di altri luoghi, lontani, al nord, con altri climi, persone, impressioni. Penso che appartenga all’esperienza di tanti come me, nati in mezzo alle Alpi e che contengono la meraviglia della varietà incredibile che possediamo. Qui in Sicilia questa ricchezza è in ogni angolo, nel coacervo di natura, genti e memorie e persino nel loro opposto fatto di scempi, soprusi, decadenza, la Bellezza qui sarà sempre più forte! Tanto che l’arte teatrale, sinonimo di sintesi tra culture e tempi, tra talenti e lento distillato di conoscenza umana, ha davvero prodotto vette molto alte. Scrittori, artisti, uomini di giustizia e conoscenza attraverso il Teatro hanno trovato il canale più efficace per raggiungere il cuore umano. Giungere alle Pietre Antiche del Teatro Greco è per me un atto di devozione quasi mistico e che contiene chiaramente anche l’espressione dionisiaca della forza e della grazia: un privilegio assoluto che bisogna sbocconcellare parola per parola, pensiero per pensiero e gesto per gesto.
Qual è il suo rapporto con la drammaturgia classica, e come riesce a riattualizzarne l’interpretazione senza stravolgere il mirabile equilibrio che esprime?
La drammaturgia classica ha la necessità di una giusta e vera traduzione, di conoscere la radice della parola, la forza che i tempi ci restituiscono della parola, ciò che ne rimane e come possiamo avvicinarci. Se questo atto è compiuto con il necessario rigore, come è avvenuto nel nostro Edipo, l’equilibrio si manifesta, la parola vibra ancora in noi e i sensi possono facilmente raggiungere un Tempo che non sia né il passato, né il futuro, ma solo ed esclusivamente l’“adesso”, quando per un attimo ci dimentichiamo di noi e siamo con ciò che accade. Questa è per me la contemporaneità della drammaturgia classica. Non alterare questo equilibrio è diventare “servo inutile”, mettersi al servizio, essere un canale di trasmissione di quel segnale antico. Ora con Francesco Morosi, nel 2000 con Dario del Corno per Oreste, poi ancora con tanti grandi traduttori questo può accadere per noi attori e per il pubblico con noi. La sensibilità del regista, la cura e la precisione creano il miracolo della trasmissione di quel segnale!
Lei ha lavorato con molti protagonisti indiscussi delle scene. In che modo il rapporto con loro ha influenzato la sua crescita artistica e umana?
Per molto tempo ho ascoltato, ho visto, ho rubato, imitato, da tutti i grandi con cui ho avuto la fortuna di lavorare. Mi sono riempito di modi, aneddoti, tanta cultura teatrale che aleggia tra i racconti delle cene, dei momenti di pausa in camerino, e poi ancora sul palco a provare un ascolto, un ritmo, una verità. Mi sento la risultante di tanti grandi incontri, di favore e incitamento, stimolo, da parte di tutti questi artisti. Da Glauco Mauri (ero il suo “cavallo di razza”, diceva) a Vittorio Gassman (il primo lavoro con lui alla Rai televisione per Il Conte di Carmagnola) e poi ancora Gabriele Lavia, Carla Gravina, Mariangela Melato (che con un sorriso mi diceva “ti sposo!”), Vittorio Franceschi, Elsa Albani, la grande Laura Adani (che mi ha fatto riconoscere il “profumo” del palco) e tanti altri, di ciascuno conservo ed elaboro un dono.
Come ha affrontato il personaggio del cieco indovino Tiresia e quali suggestioni si propone di trasmettere al pubblico rivestendone il ruolo?
Con Robert Carsen, il regista, abbiamo direzionato il lavoro su Tiresia verso un homeless realmente cieco. Con delle lentine coprenti sugli occhi ho cominciato a provare la sensazione amplificata degli altri sensi che si destano. Cercando di memorizzare esattamente le direzioni e i passi, creandomi dei riferimenti spaziali che potessero aiutarmi a vivere questo uomo della strada che possiede il dono della veggenza. Tiresia sa e contiene tutto il sapere, ma soprattutto riesce a contattare Apollo che parla attraverso di lui, “è parlato dal Dio” come se lui non sapesse fino in fondo cosa dovrà dire, come se soffrisse per questa stessa capacità di vaticinare. Questo personaggio per me è diventato una vera e propria esperienza, quasi una perdita di me, come se la veggenza fosse una sorta di trance inconsapevole, come se indicassi al pubblico la forza e l’intensità emotiva con cui qualcosa di più grande di noi esprime la sua presenza. Ho studiato molto i dervisci, quel mondo fatto di follia e profonda conoscenza, di grande povertà e ricchezza di spirito, quindi di semplicità. C’è in Tiresia l’eco del cercatore di verità, un “interprete dei segni” che sente il volo degli uccelli e ne condivide la gioia di vivere.
L’attività di scultore, alla quale anche si dedica, ha dei punti di contatto con quella teatrale?
La creatività plastica della scultura è nata insieme ai miei primi movimenti mimici con Marcel Marceau. La dimensione del movimento del mio corpo nello spazio si sposa perfettamente con la ricerca creativa delle forme, anzi ne trae spesso ispirazione e si completa. Nella scultura cerco quel silenzio che la parola può suscitare, quello stato di unione col tutto di cui mi sento parte, ed è un’attitudine semplice, il tentativo costante di un ascolto anche con le mani, con il lavoro prezioso delle mani.
Progetti in cantiere per il prossimo futuro?
Fra poco, in una pausa dalle repliche di Edipo Re, sarò insieme a mia moglie, Viola Graziosi, al Campania Teatro Festival, con una opera su Enea e Didone tratta da Virgilio con Stefano Saletti e la sua band e la regia di Piero Maccarinelli. Poi per il festival della Versiliana a luglio in uno spettacolo su testo di Antonio Tabucchi, Sogni dei sogni, con la regia di Teresa Pedroni e poi ancora la ripresa di Fedra di Seneca, sempre con Viola Graziosi e la regia di Manuel Giliberti e un altro progetto molto bello per il Festival di Todi e ancora in autunno Spoleto, ma non fatemi dire troppo.