Con "Scritti sull'Arte" Davide Sacco porta i 99 Posse in teatro
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Con "Scritti sull'Arte" Davide Sacco porta i 99 Posse in teatro

"Scritti sull'arte: da Karl Marx": il popolo della notte canta unito nella festa di Narni Città Teatro.

Scritti sull'arte - i 99 Posse a Narni Città Teatro
Scritti sull'arte - i 99 Posse a Narni Città Teatro
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1 Luglio 2022 - 21.47


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di Alessia de Antoniis

Davide Sacco e i 99 Posse hanno trasformato il teatro Manini di Narni in una piazza. Così il pueblo unido del festival Narni Città Teatro ha festeggiato un’antirivoluzione.

“Scritti sull’arte: da Karl Marx” è stata l’occasione per far uscire i 99 Posse, storico gruppo napoletano, dai centri sociali e farli entrare nel luogo della cultura borghese: il teatro; l’evento che ha restituito al pubblico presente, il teatro come luogo laico di aggregazione e lotta.

Con “Scritti sull’arte: da Karl Marx” di Davide Sacco il teatro di Narni è diventato per una notte un’agorà dove si è “rappato” di economia politica, una piazza dove è scoppiata una festosa rivoluzione. Anzi, un’ “antirivoluzione”.

In un mondo senza più le grandi ideologie, uccise in nome di una globalizzazione che ha prodotto strani anticorpi chiamati populismo e nazionalismo, l’intento dichiarato di Sacco è di mettere in scena non “uno spettacolo marxista, bensì un’opera di ignoranza”.

Sul palco i 99 Posse parlano dei nuovi schiavi: “C’è l’affitto da pagare? Vai a lavorare. Lì ti possono sfruttare, umiliare, sottopagare”. Dei morti sul lavoro: “in Italia c’è una guerra che fa più di mille morti l’anno. Tra lavoro e malasanità, dimmi tu se questa non è pulizia etnica”. Del lavoro in nero: “il lavoro occasionale non qualificato che è stato pensato dal padronato in combutta con lo Stato per il quale la vita di un proletario non vale il costo di un’assunzione regolare”

Insieme ai 99 Posse, Daniele Russo e Federica Rossellini.

A loro il compito di dare voce al comunismo che si dava per morto, a quelli ai quali si rinfacciava che volevano abolire la proprietà acquistata col frutto del lavoro: “Non c’è bisogno che l’aboliamo noi, la ha abolita lo sviluppo dell’industria”.

Ma anche di dare voce alle donne. Alle madri che hanno perso i figli negli anni della contestazione, a quelle che “quando ti nasce un figlio, ti metti i suoi occhi nei tuoi occhi, la sua bocca nella tua bocca e piangi e ridi solo se lui piange e ride”. Alla madre che “mio figlio l’ho visto l’ultima volta sulle scale. Poi lo hanno preso a bastonate. Lo hanno menato con un bastone di notte e io non c’ero per fermarli”.

Insieme, sono la voce della sorella di George Floyd col suo “enough is enough”, della sorella di Cucchi, delle madri di Aldrovandi e di Willy Monteiro.

Sono ancora loro a parlare delle guerre che rovinano il mondo e di uno spettro che si aggira tra i ruderi delle città rase al suolo; che è amico dei ragazzi di strada, che sbircia nelle cucine dei poveri, che aleggia nelle carceri e negli uffici, tra i carri armati come negli atenei e nei quartieri poveri. Uno spettro che si chiama comunismo.

Sono ancora loro a parlare di rivoluzione. Quella di un vecchio che ha fatto la guerra e che i giovani non possono capire; quella di un prete che pensa sia quella che fa dio ogni giorno; quella di un insegnante che, mentre aspetta di farla questa rivoluzione, nel frattempo la legge nei libri; quella di un albero centenario che fa cadere a terra un frutto che diventerà a sua volta albero se un uccello non lo mangerà.

Quella di un bambino, per il quale la rivoluzione è “quella che mi invento ogni giorno e non me lo hanno detto i vecchi o i preti, non l’ho letto in un libro, ma me lo hanno detto gli alberi che restano in silenzio, dritti ogni giorno senza fare la rivoluzione”.

In un paese dell’Umbria, in un teatro dell’Ottocento che immagini popolato da uomini vestiti in frac o redingote, accompagnarsi a donne dai bustini stretti in vita e ampie gonne di seta frusciante, uno strano popolo della notte ripeteva insieme “el pueblo unido jamàs serà vencido!”. Un pubblico eterogeneo per età e formazione, si è ritrovato, per poco più di un’ora, unito in uno spazio-tempo indefinito, mentre il rap e Marx si davano la mano, mentre alcuni ricordavano un passato sepolto e altri, forse, sognavano il nuovo albero nato dal frutto di quello centenario che, rimasto in silenzio, quella rivoluzione non l’ha mai davvero fatta.

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