Quello che è Lella per la canzone popolare romana, è La raggia nel panorama letterario contemporaneo.
Per chi si fosse perso quel pezzo di Storia che è Lella, si tratta del racconto di un femminicidio dal punto di vista dell’impenitente assassino. «Ma nun ce penso a chi ce sta là sotto», canta amaramente allegro del posto dove l’ha sepolta, «io ce ritorno solo a guarda’ il mare».
E al racconto dal punto di vista di un carnefice – assumendo per semplificazione le anguste categorie di “vittima” e “carnefice” – si fermano le analogie tra lo stornello romano e La raggia di Mattia Grigolo. Che per fortuna fa un passo in più: racconta con un magistrale show don’t tell la genealogia di un uomo violento. È un’operazione difficile, specularmente a quella di raccontare un personaggio che qualcuno chiamerebbe “vittima” senza cadere nei luoghi comuni; se raccontare bene una cosiddetta vittima vuol dire mostrarci anche quanto è e può essere oscura la sua psiche senza per questo dare adito a un lettore disonesto di dire “se l’è cercata”, raccontare bene un carnefice significa rendere conto anche della luce che ha dentro, delle parti pulite, senza che queste agli occhi di chi legge gli valgano da giustificazione per un vittimismo consolatorio. Per dire: era un’impresa che seppe riuscire al Nabokov di Lolita. Mattia Grigolo lo sa fare, e con La raggia lo fa benissimo.
Il libro è uscito pochi giorni fa per Pidgin edizioni. Racconta una scia di violenza, prima subita poi agita. Lo fa in forma diaristica e partendo dalla fine della storia, una scelta tecnica che – incredibilmente – funziona. “La raggia” è ovviamente la rabbia, sentimento strisciante, contagioso, che si succhia in famiglia col latte materno (o più precisamente con le botte paterne). Una rabbia prima subita poi negata, infine agita, vissuta, integrata. Scontata, perfino (il libro parla anche di carcere).
E poi c’è la volpe. La volpe che è matrioska di proiezioni del protagonista: proiezione della madre, che a sua volta era proiezione di un lato puro, idealizzato, di un paradigma vittimario inteso nel suo senso più infantile, come si può ricordare una madre che ha condiviso spazio e tempo con un padre violento. Ma in realtà e proprio in assenza di questa madre che non sapremo mai se ha fatto i conti con la mancata integrazione di un altro lato dentro di sé – la rabbia, appunto, ma anche la sua parte di responsabilità nel crescere un giovane uomo in una famiglia così -, è il protagonista a doverci fare i conti. Fare i conti con questa rabbia da integrare in qualche modo. Rabbia ereditaria, rabbia contagiosa. La volpe è stata ferita dal padre, e non è l’unica. La volpe è incazzata.
Perché stai incazzata?, le chiede in un dialogo immaginario, onirico, il protagonista. Perché c’ho la raggia, mi ha detto. E io ho pensato che c’ha ragione questa volpe qui. Ce l’ho pure io la raggia.
Eccola, l’integrazione dell’emozione che più di tutte ha saputo ferire la voce narrante. L’emozione che meno avrebbe voluto scoprire di provare anche lui. L’emozione che sperava fosse solo paterna, la causa delle botte (e di altro, anche).
Questo è un libro che parla di una storia certo eccezionale, ma in un mondo in cui la violenza è la regola servono i paradigmi eccezionali per chiedersi: e io? Ce l’ho pure io, forse, la raggia. E magari va bene così. Magari, dipende solo da come la usi. Magari puoi farlo come lo farebbe una volpe. Magari, per necessità si può ferire.
Qualunque siano le domande che solleva nel lettore o nella lettrice, qualunque siano le risposte più o meno temporanee che ci si può dare a partire da quelle domande, una cosa è certa: La raggia di Mattia Grigolo sa essere, anche e soprattutto grazie al fatto che sa entrare nel cuore di un carnefice senza mai ridurlo a questo, una cosa bella. Anzi: usando proprio le parole che quel carnefice dedica alla persona che non sa amare senza replicare schemi violenti, questo piccolo potente libroè “una cosa bella che si abbraccia al cuore”.