"Diventare cagna" di Itziar Ziga: un libro liberatorio perché libero come un latrato
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"Diventare cagna" di Itziar Ziga: un libro liberatorio perché libero come un latrato

Un prologo, tra le righe, firmato da Virginie Despentes e Paul B. Preciado. Poteva mai deludere un libro introdotto da due delle voci più importanti e lucide del femminismo contemporaneo? Assolutamente no.

"Diventare cagna" di Itziar Ziga: un libro liberatorio perché libero come un latrato
Itziar Ziga
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Valentina Mira Modifica articolo

16 Luglio 2022 - 16.48


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Liberatorio. È così che definirei Diventare cagna di Itziar Ziga, che torna per D editore dopo 10 anni dalla prima uscita in Spagna.

Liberatorio perché libero coma un latrato. È in effetti a una cagna, a una lupa che fa pensare questo libro fin dal prologo, che ci parla della «vena più licantropa dell’attivismo femminista contemporaneo». Un prologo, tra le righe, firmato da Virginie Despentes e Paul B. Preciado. Poteva mai deludere un libro introdotto da due delle voci più importanti e lucide del femminismo contemporaneo? Assolutamente no.

Despentes e Preciado ci preparano con poche pagine che vanno a segno. «Le cagne la cavalcano la crisi, perché la crisi è l’unico stile di vita che conoscono». (E ci è subito chiaro che non è di femministe ricche che parleremo, qui). E ancora: «Una cagna sola è una cagna morta, un branco è un commando politico». Tutto vero.

Entriamo nel libro che siamo già gasate. Itziar Ziga, come una Virginie Despentes basca, inizia dicendo che nonostante abbia studiato giornalismo – disciplina di cui non le sfuggono né segreti né ombre, che non ha paura di raccontare con la giusta cattiveria – lei si esprime come un camionista bloccato in tangenziale. E ci butta in faccia con nonchalance la sua ferita, aggiungendo che suo padre ha sempre saputo che lei gli avrebbe dato problemi. Che «sebbene non abbia trovato altro rimedio che sopportarla, non ho mai accettato la sua violenza contro di noi». E poi parte.

Parte in un excursus a penna libera sul femminismo istituzionale, quello che nel capitalismo trova la sua degna cuccia e la sua dose quotidiana di croccantini. «Tralasciando il fatto che spaccherei la faccia a molte donne che hanno finito col trovare la loro fetta di potere nel femminismo istituzionalizzato sulla pelle delle diseredate (tra le quali mi colloco), mi definirò sempre femminista», ci dice. Aggiunge che dirsi femminista ha la stessa fama negativa del definirsi puttana. E allora si rivendica entrambi gli aggettivi: femminista e perra, cagna. Puttana, sì. Niente dà più fastidio a chi ti vorrebbe azzittire usando quell’appellativo, di una donna che ridendo dice: uh-uh. Esatto. Puttana, e allora?

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«Vestirmi come una troia è stata una conquista che associo alla mia indipendenza da adulta». Qui Ziga entra in una disputa piuttosto poco dibattuta, e anche per questo interessante. Parla di quanta misoginia – innanzitutto interiorizzata – ci sia nell’identikit, anche estetico, della femminista e della compagna perfetta. Parla di una “femminilità strepitosa che è stata repressa dall’ambiente familiare e sociale”. Visto che, come ci dicono Despentes e Preciado, questo libro è “scrittura-branco”, qua cita altre perras, altre cagne. È Majo a parlarci di femminilità castrata, con buona pace di Freud e delle sue teorie fallocentriche più stantie. Ci parla di un riapprodare – non prima di una fase in cui si sperimenta l’assenza di trucco a tutti i costi, un vestiario maschile, la non depilazione – in alcuni casi a un’immagine provocatoriamente iper femminile. Non come scelta che dovrebbe essere applicata a chiunque, ma come desiderio che, se c’è, dovrebbe essere rispettato come gli altri desideri. Nel mondo del “te la sei cercata”, non c’è niente di meno innocuo di una perra in minigonna e con un coltello nella borsa. «A volte penso di aver estremizzato la mia femminilità solo per il piacere di tirare fuori l’orco dalla grotta e tagliargli la testa». Magari è l’orco che se l’è cercata, chissà.

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Come nel caso di quella donna che nel 2008 uccise con un’ascia il suo compagno violento. Ziga ci racconta come lei e le altre perras hanno accolto la cosa: «Me lo ricordo perché era il compleanno di Virginie e l’abbiamo festeggiato con questa buona notizia». Poi, però, ci dice anche che la notizia non è stata seguita dai media né rilanciata: come se potesse diventare un buon esempio di legittima difesa. Quale è stato, visto che lei lo aveva denunciato più volte e lui aveva un’ordinanza di allontanamento che, chiaramente, non ha rispettato. Brindiamo a quest’altra cagna che non ha avuto paura di pronunciare la parola vendetta. 

Mai alienata dalla realtà, Itziar Ziga è tagliente e accogliente insieme. «Difenderò con le unghie e con i denti l’attivista che passa per strada con la sua kefia e la punk che non piegherà mai la cresta, anche se io preferisco passare inosservata alla polizia». Paragona l’aderenza a dei canoni estetici considerati alla quasi unanimità femminili alla scelta dei casual allo stadio, in sostanza. Un punto di vista originale che non ha tutti i torti di essere, al contrario. 

Parla di suore e di sex worker, senza contraddizioni. Argomentaquanto la spaventi il ritorno dei discorsi abolizionisti. «Io non faccio parte di questo femminismo delle ragazze perbene». Ci ricorda che le femministe anti-pornografia si allearono con l’estrema destra negli anni dell’era Reagan. Chi sono queste femministe giudicanti, bianche, benestanti e perbene, che ci dicono con gli occhi del padre: io non mi prostituirei mai? Non sono forse le stesse che ci dicono: io non abortirei mai, come se c’importasse la loro infantile estensione di un punto di vista soggettivo sui corpi delle altre? Questa pulsione a vittimizzare e zittire le puttane, questi consigli normalizzanti, detti o taciuti, questi punti di vista che si presumono migliori dall’alto magari di una piattaforma social. 

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«Il patriarcato non sta nascosto nello hijab, ma nella proibizione o obbligatorietà di indossarlo». Ed ecco qua: vale per tutto. Hijab, ceretta, capelli tinti, minigonna, pantaloni – tutto. Non c’è una scala di valori nell’estetica e non c’è un identikit della femminista perfetta. 

Chiudo citando un pezzo del libro che ha saputo riecheggiarmi in testa, perché mi parla di un branco buono, né meno né più di quello che meritiamo.

«Eravamo un gruppo di ragazze tutte amiche, ci eravamo conosciute in un gruppo femminista all’università, tutte con i capelli corti e un look da punk basche. Ricordo questa ragazza bionda, tutta sola, accendersi una sigaretta all’alba nella sua quattro per quattro, sembrava una pubblicità della Marlboro. Un’amica mi ha detto che era stata violentata due volte. Tutte e due la stavamo guardando a distanza con affetto e commentavamo: la sua femminilità era un grido».

Diventare cagna di Itziar Ziga è un libro per tutte, sante come la sant’Agata che si tagliò a fettine le tette pur di non sposarsi contro volontà, e puttane che fumano miliardi di sigarette rivendicando che non è la loro femminilità a renderle vulnerabili. La femminista alto-borghese ti dice: io non lo farei mai. La femminista-perra ribadisce che a lei non gliene frega proprio un cazzo.

Las morsas, las focas, las zorras

las frikis, las chonis, las dragqueens

Las blancas, las negras, las moras

la femme, la futch, la butch, la bitch 

[…]

somos las que no se rinden jamás.

(Testo da Las Desheredadas – Tribade)

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