Il Roma Fringe al Vascello fino al 26 luglio il
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Il Roma Fringe al Vascello fino al 26 luglio il

Roma Fringe Festival: due settimane di spettacoli per capire le nuove tendenze del teatro italiano. Intervista al direttore Fabio Galadini.

Fabio Galadini
Fabio Galadini - direttore Roma Fringe Festival
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18 Luglio 2022 - 21.20


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di Alessia de Antoniis

Tre spettacoli al giorno fino al 26 luglio. È la X edizione del Roma Fringe Festival, quest’anno ospitata da Manuela Kustermann al teatro Vascello. In gara 20 spettacoli, con la finale che si svolgerà il 26 Luglio. Per il vincitore del Roma Fringe Festival c’è una grande opportunità: una tournée teatrale di 12 date nei teatri che compongono la rete di Zona Indipendente, una rete di Teatri dislocati su tutta la penisola che si sono messi in gioco per creare una rete Fringe nazionale. Lo spettacolo a cui verrà assegnato il premio come Miglior Spettacolo Roma Fringe Festival 2022, avrà anche l’accesso, come rappresentante italiano, al San Diego Fringe Festival.

Nato nel 1947 a Edimburgo, nel Regno Unito, conta oggi oltre 250 festival annuali, dall’Australia agli Stati Uniti, dall’Asia all’Europa. Fringe significa, ogni anno, 19 milioni di persone che in tutto il mondo vedono 170 mila artisti replicare 79 mila spettacoli. Attori del calibro di Ewan McGregor, Hugh Jackman, Tim Roth, Hugh Grant sono passati per le tavole dei teatri del Fringe.

E, dal 2012, anche Roma ospita il suo Fringe.

“Era un fatto inedito in Italia – racconta Fabio Galadini, direttore del Roma Fringe Festival – e si inserì nel contesto dell’Estate Romana: all’aperto, con un grande coinvolgimento di pubblico, una grande festa nella bellissima sede di Villa Mercede. E nel rispetto dello spirito del Fringe, il Roma Fringe è il festival del teatro indipendente: un festival che parte dal basso perché si basa soltanto sulle proprie forze e sulla convinzione che tutti, al di là del sostegno pubblico, possano e debbano creare ogni giorno per tutto l’anno.

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Quando ho assunto la direzione, nel 2019, ho cercato di mantenere vivo lo stesso spirito. Da quest’anno siamo stati accolti al Vascello da Manuela Kusterman che ha sposato il nostro progetto. Siamo ospiti, ma ci sentiamo a casa nostra.

Avete selezionato 21 spettacoli. Quante richieste sono arrivate?

Oltre cento da tutta Italia. L’obiettivo è quello di individuare novità sul piano della scrittura. Il criterio di scelta si basa sempre sulle nuove proposte drammaturgiche e i temi trattati.

I temi sono uguali da Nord a Sud? Dopo la pandemia sono cambiati?

Le tematiche alle quali abbiamo prestato attenzione sono quelle della condizione femminile e, in questo periodo specifico, la solitudine e i conflitti sociali. Temi che sono da sempre il nutrimento del teatro. Esaminiamo anche proposte di testi di autori stranieri che sono stati riadattati, ma sconosciuti in Italia. Soprattutto, e questo è il nostro obiettivo, cerchiamo di sollecitare una nuova scrittura. È molto difficile fare una distinzione tra Nord e Sud. Trovi un testo sulla condizione femminile al sud, ma poi c’è un gruppo bolognese con una proposta simile. La differenza non è tanto nelle tematiche, quanto nella diversa modalità di fare teatro. Il Fringe, grazie a questo tipo di selezione, ci dà uno spaccato, anche se parziale, di come viene praticato il nuovo teatro. C’è un’attenzione maggiore al Nord sulle trasformazioni antropologiche di determinate tecnologie. Nel sud c’è una maggiore presa di coscienza sulle condizioni sociali. Abbiamo presentato, ad esempio, uno spettacolo che vede un flusso di coscienza che è il risultato di quel “pastiche” mediatico che noi viviamo costantemente. Questo del rapporto, della crisi che c’è tra l’identità e il meccanismo comunicazionale che la ridefinisce, è un tema ricorrente.

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Molti lamentano che dobbiamo importare nuova drammaturgia da Francia e Inghilterra perché l’Italia non ne ha…

No, bisogna capire quali sono le condizioni. A Parigi c’è il Théâtre de la Huchette che fa Ionesco dal 1957. In Inghilterra ci sono teatri che fanno da sempre Shakespeare. Sempre lo stesso testo, per generazioni. Le produzioni cambiano gli attori ogni sei anni semplicemente perché l’attore, invecchiato, non può più fare lo stesso ruolo. Questa tradizione non esiste in Italia. Ci sono gli autori storici, come Shakespeare, ma non c’è in Italia un teatro che faccia solo Goldoni, tutti i giorni. In Italia c’è una modalità di produzione teatrale che non ha similitudini con altri Paesi. Dopo il teatro capocomicale, c’erano le grandi compagnie che facevano tournée che duravano otto mesi, un anno. Non si fa più da quarant’anni. Abbiamo una modalità di produzione a ripetizione: si producono spettacoli con un mese di prove. Accade solo da noi. Negli altri paesi impiegano sei o sette mesi. In Russia, o altri paesi dell’Est, la prima di un allestimento avviene dopo tre anni di lavorazione. La difficoltà italiana è che ha perso, forse, la dimensione artigianale del fare teatro.

Quando c’è una produzione continua, non c’è possibilità di riflettere, di approfondire, di costruire qualcosa che abbia una prospettiva di cambiamento. Non significa che non ci siano attori, registi, drammaturghi importanti. Ce ne sono eccome. Il talento in Italia è molto diffuso, sia quello attoriale che quello registico. Forse un po’ meno quello drammaturgico. È molto difficile individuarlo perché il sistema dello spettacolo dal vivo, soprattutto in questi anni, è un sistema di grandi numeri. Il teatro, a parer mio, per ritrovare la sua dimensione artigianale, di costruzione e di scoperta, deve superare questo paradigma dei numeri, altrimenti non se ne esce.

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Siamo però pieni di scuole…

Questo è un problema che preferirei non affrontare e che racconta il depauperamento degli ultimi trent’anni. In Italia ci sono delle sacche di formazione che sono delle eccellenze. A Roma, negli anni Settanta e Ottanta, c’erano quattro o cinque scuole, come la Fersen e l’Accademia. Oggi non si contano. Quindi la domanda è: se c’è così tanta diffusione significa che il teatro è vivo’? No, significa esattamente il contrario. Che il teatro non ha più una dimensione artigianale, non si costruisce e non si scopre, non si ricerca sufficientemente. Anche se ci sono i talenti. Abbiamo nomi e produzioni di caratura internazionale, ma per ritornare al centro della scena credo si debba avere tempo per produrre qualcosa di davvero valido.

Penso che Napoli, ormai da qualche anno, sia il laboratorio teatrale italiano. Questa la mia opinione.

Avete ricevuto più rielaborazioni di testi stranieri o produzioni nazionali?

Tranne due o tre, sono tutte drammaturgie italiane. Il fermento c’è.

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