Morte nella terra promessa: il massacro di Tulsa
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Morte nella terra promessa: il massacro di Tulsa

Cosa scatenò la furia cieca di una torma di cittadini bianchi intenzionati ad appropriarsi della legge e a farsi giustizia da soli?

Morte nella terra promessa: il massacro di Tulsa
Il massacro di Tulsa
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21 Luglio 2022 - 20.14


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di Rock Reynolds

Quando, il 29 aprile del 1992, la prima fiamma della rivolta incendiò un quartiere di Los Angeles dopo l’assoluzione dei quattro agenti di polizia, protagonisti del brutale e insensato pestaggio ai danni dell’afroamericano Rodney King, propagandosi all’intera città e rischiando di travolgere tutto il paese, la sbiadita memoria collettiva del popolo americano tornò quasi automaticamente a quello che resta, con ogni probabilità, l’episodio più raccapricciante di follia di stampo razziale nella storia degli Stati Uniti: il massacro di Tulsa, avvenuto nel 1921.

Anche a Los Angeles si registrarono per diversi giorni incidenti tra la popolazione di colore inferocita e le forze dell’ordine, come pure tra gli stessi afroamericani ed esponenti della comunità bianca. Ma l’eco mediatica della rivolta di Los Angeles del 1992 ebbe ben altro impatto sull’opinione pubblica della nazione, anche grazie alla velocità decisamente superiore con cui le notizie si diffusero e pure a una coscienza collettiva più sensibile all’annosa questione razziale. In fondo, nel 1921 in buona parte degli Stati Uniti vigeva ancora la legislazione “Jim Crow”, un corpo di leggi segregazioniste. Nel 1992, parecchie cose erano cambiate.

Ma andiamo per gradi. Cosa scatenò la furia cieca di una torma di cittadini bianchi intenzionati ad appropriarsi della legge e a farsi giustizia da soli? Morte nella terra promessa (Mimesis, traduzione di Annalisa Sanson, pagg 166, euro 18) di Scott Ellsworth mette ordine in una matassa resa ancor più fumosa dall’incedere implacabile del tempo, oltre che da una volontà più o meno sommersa di rimuovere certe macchie dalla coscienza della nazione.

Chi decise di raccogliere la giustizia nelle proprie mani lo fece per punire il colpevole delle presunte molestie – in realtà mai dimostrate e frutto di un nebuloso racconto della sedicente vittima – subite da una ragazza addetta all’ascensore di un palazzo: un giovane di colore. Nella storia della difficile convivenza tra razze in America di episodi come questo se ne annoverano tantissimi e, in larga parte, le cose sono finite malissimo per gli afroamericani che vi hanno recitato un ruolo: nella migliore delle ipotesi, un pestaggio furioso, in quella peggiore, un linciaggio in piena regola. I film che raccontano come viene organizzato un lynch mob – ovvero un manipolo di cittadini benpensanti che si armano di bastoni, fucili, corda e torce e catturano il malcapitato di colore, pestandolo e, magari, incenerendone la misera casa, prima di appenderlo a un ramo e di lasciarvelo marcire, non senza aver fatto ulteriore scempio del suo corpo – sono un classico della cinematografia a stelle e strisce. Addirittura, l’usanza del farsi giustizia da soli, celebrata soprattutto dalla filmografia western, ha travalicato i confini razziali, trasformando in mostri per volere collettivo gli esponenti delle classi sociali più infime, sorta di “negri bianchi”, come magistralmente narrato dalla pellicola di Arthur Penn La caccia (1969), con Marlon Brando, Robert Redford e Jane Fonda in gran spolvero.

Tulsa, Oklahoma, sul nascere degli anni Venti, era una delle città dai tassi di crescita più alti del paese, sotto l’influsso poderoso del boom petrolifero. Già prima del 1907, anno in cui i “territori” dell’Oklahoma ottennero il riconoscimento come stato, a Tulsa viveva una nutrita comunità di persone native e afroamericane. Il boom petrolifero, naturalmente, attirò in loco sedicenti imprenditori, avventurieri e semplici cittadini bianchi in cerca di migliore sorte. Lo stato manifestò fin dal principio una forte propensione ai valori conservatori e il coinvolgimento americano nella Grande Guerra non fu certo foriero di buone notizie per le rivendicazioni dei lavoratori dell’Oklahoma. La stampa locale, che pochi anni dopo avrebbe fomentato pericolosamente i disordini, soffiò sul fuoco dell’antisocialismo, tacciando gli operai aderenti al sindacato petrolifero di attività antipatriottica: in tempo di guerra, la produzione di petrolio e polvere da sparo non poteva interrompersi. In quel clima avvelenato si colloca l’arresto nel 1917 di 17 aderenti all’IWW (il sindacato Industrial Workers of the World), processati e condannati mediante un processo indiziario, ma poi strappati alle forze di polizia da un gruppo di facinorosi aderenti ai Knights of Liberty, sorta di Ku Klux Klan locale, che li cosparsero di pece e di piume, esponendoli al pubblico ludibrio. La temperatura sociale a Tulsa salì a livelli di guardia, con la popolazione bianca sempre più insofferente verso i successi di esponenti della comunità di colore che, negli anni, si erano fatti una posizione dignitosa. In tale contesto vanno visti i tentativi fallimentari dell’amministrazione locale di ricostruire dopo il massacro, in posti diversi da quelli su cui sorgevano, i quartieri neri inceneriti dalle orde bianche, ostentando la finta volontà di aiutare la comunità afroamericana. D’altro canto, dopo che i quartieri neri furono ridotti in cenere fumante, il verdetto del conseguente processo stabilì che a far scoppiare i tumulti era stato l’intervento di un gruppo di neri armati fino ai denti. Il numero delle vittime resta ancora non del tutto certo, ma i danni in termini di vite umane tanto quanto di risorse materiali furono ingentissimi.

Scott Ellsworth ricostruisce con il rigore dello scienziato sociale il clima arroventato che portò al massacro, il dipanarsi del massacro stesso e ciò che avvenne in seguito, citando con una punta d’orgoglio il grande numero di istituzioni create dalla comunità di colore a Tulsa, a partire dalla scuola per afroamericani intitolata a Booker T. Washington, una delle figure più iconiche del movimento di liberazione dei neri d’America, un ex-schiavo assurto a importanti ruoli istituzionali, sostenitore strenuo dell’importanza dell’educazione scolastica per i fratelli neri. E la convinzione nella necessità di una crescita intellettuale della sua razza attraverso l’istruzione è un elemento che lo accomuna ad altri crociati per la causa nera nel mondo, come Malcolm X e lo stesso Nelson Mandela. Quest’ultimo, a una sua collaboratrice – peraltro bianca – che orgogliosamente gli comunicò il conseguimento di una laurea, disse, “Non basta. Prendine un’altra!”. 

Con Morte nella terra promessa, Scott Ellsworth cerca di dare una spiegazione al massacro, contestualizzandolo nel clima di tensione di quella città cresciuta praticamente dal nulla in pochi anni in un territorio poco ospitale. Il periodo era di poco precedente la Grande Depressione e la presenza di un forte nucleo di aderenti al Ku Klux Klan aveva rafforzato una corrente di pensiero sempre più forte all’interno della popolazione di colore: l’autodifesa. I quotidiani locali, soprattutto il Tribune, erano forum di propaganda suprematista. Come in ogni città americana dal grande tasso di crescita urbanistica e demografica, i traffici illegali erano fiorenti quanto la era Tulsa: bordelli, sale da gioco clandestine, contrabbando, scarso controllo delle forze dell’ordine nei confronti delle quali il livello di fiducia era bassissimo, soprattutto da parte dei neri. Scrive Ellsworth che “La sfiducia degli afroamericani nei confronti della polizia non fece che aumentare quando gli agenti cominciarono a invadere i quartieri neri e a tormentarne gli abitanti. Di nuovo c’è solo la modalità di aggressione, ma la natura di tali comportamenti era già diffusa”.

Insomma, quando l’autore ci ammonisce che “esiste una segregazione della memoria in ogni parte della nazione. E sarà così finché continuerà l’ingiustizia che l’ha alimentata”, non dobbiamo stupirci. La volontà di cancellare ciò che è motivo di imbarazzo per una nazione la si percepisce quotidianamente in ogni angolo del pianeta.

Nsi fa fatica a tracciare una sottile linea che colleghi quel massacro con una serie imbarazzante di nefandezze ai danni della popolazione di colore. Il movimento “Black Lives Matter” ne è l’ultima emanazione diretta.

Dicevamo che, nel 1992, parecchie cose erano cambiate. Ma oggi, a trent’anni di distanza dalla rivolta di Los Angeles e a oltre un secolo dal massacro di Tulsa, la storia ci ha dimostrato che la strada è ancora lunghissima e che, forse, il traguardo non si materializzerà mai.

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