Nancy Porsia: "Perché ho voluto raccontare la mia storia in Libia"
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Nancy Porsia: "Perché ho voluto raccontare la mia storia in Libia"

In attesa di vederlo sulle piattaforme, parliamo con Nancy Porsia di "Telling my son's land"

Telling my son's land - Nancy Porsia
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22 Luglio 2022 - 22.57


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di Alessia de Antoniis

“Per anni ho chiesto a donne, uomini e bambini di raccontarmi le loro storie. Ora lo hanno chiesto a me e ho pensato fosse giusto restituite la fiducia che mi era stata data”.

Apre così il film “Telling my son’s land” di Ilaria Jovine e Roberto Mariotti, con le parole di Nancy Porsia, giornalista freelance tra le maggiori esperte di migrazione e traffico di esseri umani in Libia.

“Tante volte sono stata io quella che è entrata con la telecamera nella vita delle persone” – racconta Nancy Porsia. Lucida, analitica, gentile anche quando parla delle sue cicatrici, del pericolo di essere uccisa, dell’abbandono da parte dei colleghi. “Sono consapevole di quanto dico, ho avuto anni per riflettere: non parlo sulla scia delle emozioni” – dirà nel corso dell’intervista.

Ma perché accettare la proposta di Ilaria Jovine e Roberto Mariotti del documentario su di lei?

La mia storia racconta il dietro le quinte del lavoro da freelance in zona di guerra. Ho ancora le cicatrici addosso, per questo penso che la mia storia sia importante.
Ad un certo punto ero diventata un target. Non accade all’improvviso. Sai che qualcuno ti vuole morta, che sei attenzionato dai servizi segreti, che qualcuno potrebbe simulare un incidente. Era tutto reale, ma era difficile condividerlo perché rischiavo di sembrare una matta. Quando sei una freelance, piccola, le conseguenze delle tue scelte professionali le vivi in privato e non sui media come accade a chi ha alle spalle grandi testate. Questo è stato il risvolto peggiore: non avere la solidarietà dei colleghi. Giuseppe Giulietti, presidente nazionale stampa italiana, e la mia avvocatessa, Alessandra Ballerini, sono stati gli unici a perorare la mia causa. Molti colleghi preferivano ignorare la situazione.

Quando mi chiedi cosa significa essere un target, io penso alla solitudine che ho vissuto. Per fortuna ho avuto accanto il mio compagno. Con la paura impari a convivere, con l’isolamento no.

Molti colleghi mi hanno detto: “vabbè, ormai questa cosa l’hai detta, ora basta”. Hanno cercato di sminuire l’importanza dell’inchiesta che avevo fatto”.

Sei stata un fixer, quelle persone che negli scenari di guerra assistono i giornalisti perché conoscono la lingua, gli usi locali, i personaggi chiave.

Mio marito era il mio fixer in Libia. Sono sempre stata solidale con la figura del fixer. Nei corsi di formazione in giornalismo, sono stata la prima a parlarne. Dicevo sempre che il Pulitzer si vince se si incontrano un bravo giornalista e un bravo fixer. Per anni gli inviati hanno nascosto questa figura, come se fosse possibile stare due settimane in Iraq e fare uno scoop. Ho lavorato come fixer in Libia, per Rai, BBC e altre grandi testate. Ho sperimentato la superficialità di colleghi internazionali. Ricordo una riunione, in piena notte, al termine della quale un collega americano mi disse che era stata partecipata da uomini dell’intelligence libica: non puoi mettermi nelle condizioni di parlare off the records, senza dirmi che c’è un libico. Quella notte pensai di lasciare la Libia con il primo aereo. Molti hanno accettato di lavorare con me perché, come mi dicevano, “tu domani sei ancora qui, un altro se ne va e noi rimaniamo nei guai.

Quando ho pubblicato quel reportage , sapevo i rischi che correvo, ma non potevo non denunciare quanto avevo documentato. La mancanza di sostegno da parte dei colleghi è stata l’unica conseguenza che non avevo preventivato, la più pesante. I rischi erano già calcolati, l’isolamento no.

Ognuno ha il suo approccio al mestiere di giornalista. Il mio è militante, per altri è più importante la visibilità. Il mio obiettivo non è solo raccontare una storia, ma che quella storia apra un dibattito nell’opinione pubblica, che porti a scelte di voto differenti.
Io credo nel giornalismo come quarto potere, positivo ovviamente, non deviato”.

Sei stata oggetto di intercettazioni telefoniche da parte della Procura di Trapani.

Quando è venuta fuori la storia delle intercettazioni, ho provato rabbia e senso di impotenza per l’abuso di potere della magistratura, ma soprattutto sollievo. Per anni avevano provato a farmi sentire una matta: la storia delle intercettazioni era la prova del valore del mio lavoro. Ci furono colleghi che provarono a dire che tanti giornalisti sono intercettati. Non è vero: sono stata l’unica. Gli altri sono finiti nelle intercettazioni degli indagati. Io ho avuto i telefoni intercettati per sei mesi. Non sono finita nelle intercettazioni di altri.

Con la guerra in Ucraina, è emerso come il confine tra giornalismo e show business sia ormai labile e come ci siano giornalisti non preparati.

I giornalisti impreparati sono un danno all’informazione. Ma è la logica del mercato, perché una testata vende più la firma che il contenuto.

Quando mi dicono “ma tu sei Nancy Porsia”, io rispondo che non vendo me stessa, ma il progetto. Penso che sia il modo corretto di fare giornalismo. Il mio lavoro dovrebbe fungere da garante, ma, per come è adesso il mercato dell’editoria, non basta. Un lavoro come il mio richiede fondi. Si parla tanto di libertà di stampa, soprattutto nel caso dei freelance, ma la possibilità di scavare in una notizia dipende dal budget che hai. Se paghi di tasca tua, non ce la fai. Se hai alle spalle una testata, riesci anche ad andare da una parte all’altra del globo per inseguire una storia. Il freelance ci prova. In Libia ero entrata in una dinamica per cui lavoravo tanto e guadagnavo vendendo il servizio già confezionato. Ma quella è un’eccezione, non è la norma. Un fixer, ad esempio in Iraq, ti può costare 500 dollari al giorno. Soldi che non guadagnerai neanche. Non puoi lavorare come i giornalisti del New York Times, avere i loro fondi, un fixer in esclusiva per dieci giorni.

Nel documentario racconti che per un periodo sei stata l’unica giornalista straniera in Libia.

Nel 2013 eravamo in cinque: tutti freelance. Non c’era nessun corrispondente, a parte la Reuters. Quando c’è stata la nascita dello Stato islamico e hanno chiuso le ambasciate, sono rimasta l’unica. Poi hanno iniziato ad arrivare le truppe della CNN o della Rai, per vedere lo Stato islamico, ma era diventata una sorta di show. Non era più la Libia, ma lo Stato islamico la storia da vendere.

Ci sono stati giornalisti stranieri che mi hanno intervistato sulla storia di Bija e hanno vinto premi giornalistici grazie a me. Quell’inchiesta era la mia. Mi pento della mia ingenuità, ma ero in un asituazione di forte stress, in costante pericolo di vita.

Una giornalista intercettata, è un episodio inquietante in uno Stato democratico.

Ti rispondo con delle congetture. Di fatto, dal 2015 si è aperta una nuova branca politica che fa campagna elettorale sulla migrazione irregolare e sulla chiusura delle frontiere. Secondo me, c’è stata una commistione tra il potere esecutivo e il potere giudiziario. E questa è una prima grande rottura del sistema democratico. Il potere giudiziario si è lasciato influenzare e infiltrare da politiche contro la migrazione irregolare. La guerra ai trafficanti in realtà è una guerra ai migranti. I trafficanti sono un network di uomini d’affari criminali che viene alimentato dallo stato di necessità dei migranti. Se l’Europa adotta misure restrittive, aumenta anche la rete di criminali che campano di smugling o traffico di esseri umani. La migrazione irregolare non la creano i trafficanti, ma la politica dei visti.

Il processo Juventa è nato sull’input di un ex agente cacciato dal corpo della polizia che si è imbarcato come agente di sicurezza privato sulla nave di Save the Children e ha riportato, a una persona vicino a Salvini, che aveva riscontrato irregolarità da parte delle ONG che fanno soccorso in mare. Qui vedo la commistione tra potere esecutivo e potere giudiziario. I procuratori hanno cercato riscontri a una tesi predefinita: quella della connivenza tra ONG e trafficanti. Le ONG sono dei testimoni oculari scomodi delle politiche di cooperazione tra Italia e Libia.

Sono stata intercettata per le mie indagini. Ho intervistato il capo dell’unità del centro di cooperazione Italia-Libia della marina militare e altri attori coinvolti nel Memorandum d’Intesa del 2017.

Il codice penale dà agli inquirenti il diritto di intercettare persone non indagate come misura estrema, perché sospende i diritti costituzionali e, nel mio caso, violava il segreto professionale. Come giornalista ho diritto alla tutela delle fonti. È una misura che può essere usata al massimo per due settimane. Io sono stata intercettata per sei mesi e neanche una riga è finita nell’informativa finale. Significa che è stato un abuso”.

Quindi hai già avuto l’accesso agli atti?

No, stiamo ancora aspettando. Me li hanno passati alcuni colleghi che hanno avuto accesso.

Questo però significa che da qualche parte ci sono le conversazioni con le tue fonti e noi, da diversi anni, non abbiamo più quella catena di comando che c’è stata dal secondo dopoguerra.

Dal 2019 abbiamo avuto un governo senza controllo. Io prendo atto del fatto che tra quello che è stato depositato in procura non ci sono le conversazioni con le mie fonti. Devono essere da qualche parte, perché ne ho avute.

C’è poi stata la violazione delle conversazioni con la mia avvocatessa Alessandra Ballerini e lì c’è la violazione della riservatezza delle conversazioni tra avvocato e assistito.

Se l’Italia continua a non recepire le sentenze di Strasburgo, Trapani può diventare un precedente per bypassare le leggi a tutela della stampa?

Non lo so. Io ho avviato una causa per violazione dei miei diritti presso la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Ho saltato la giustizia nazionale dopo che la ministra Cartabia ha dichiarato che gli ispettori non hanno riscontrato alcuna violazione a Trapani.

La stampa era il watchdog del potere. In epoca di fake news, chi è il watchdog della stampa?

Ci sono trasmissioni come Presa diretta e Report. L’informazione c’è. Purtroppo i direttori oggi, anziché alzare il livello del dibattito, preferiscono assecondare l’imbarbarimento del linguaggio dell’opinione pubblica alimentato dai social. Ormai sono le testate che prendono notizie dai social. Siamo nell’infoteinment.

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