di Alessia de Antoniis
Dal 27 agosto al 4 settembre è di nuovo Todi Festival. E per il direttore artistico Eugenio Guarducci è già un successo.
Nato a Perugia, Eugenio Guarducci visita, appena ventenne, l’Oktoberfest. Ha un’idea vincente: una festa del cioccolato. Nasce Eurochocolate, il più grande Festival Internazionale del Cioccolato.
Architetto “con la passione di organizzare il tempo libero degli altri”, è da sette anni alla guida del Todi Festival. Privo di quel narcisismo che spesso caratterizza positivamente gli artisti, Guarducci ha piuttosto il pragmatismo dell’imprenditore abituato a raggiungere obiettivi, che declina con la creatività dell’architetto. “Non sono un esperto di teatro o di quello che viene fatto sopra il palcoscenico. Sono un imprenditore che si occupa di tutt’altro, ma mi faccio consigliare e guidare da persone che ne sanno molto più di me”.
E l’ennesimo traguardo non si è fatto attendere. Quest’anno il ministero della Cultura ha inserito il Todi Festival tra le manifestazioni beneficiarie del Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS), nella categoria Festival.
Siamo alla XXXIV edizione. Cosa racconta il Todi Festival 2022?
È un percorso che abbiamo intrapreso sette anni fa, dopo aver ereditato l’esperienza di Silvano Spada che lo fondò nel 1987. Un percorso che raggiunge la sua maturità dopo anni, durante i quali abbiamo cercato di rispettare la tradizione apportando innovazioni che hanno dato frutti positivi. Penso che la riconferma del nostro lavoro sia dovuta anche a questo. Teatro sì, ma non solo. Piuttosto una mescolanza di generi, un cambio continuo di scenari. Ogni sera diversa dall’altra. Abbiamo voluto dare una connotazione molto ritmica al festival con l’introduzione di tutte le arti performative.
È alla guida del Todi Festival per il 7º anno: da che parte sta andando, guardandola dal suo osservatorio, la drammaturgia teatrale italiana?
Mi pare che la pandemia ci abbia costretto a lasciare a casa i mezzi per spostarsi, ma non il cervello. Forse ha dato la possibilità di ricercare e di sperimentare un po’ più di prima. Purtroppo il tempo per farlo è stato creato da una pandemia, ma questo si è riversato in una articolazione di proposte che non si vedeva da tempo. È il caso di dire che non tutti i mali vengono per nuocere.
Forse se si finanziasse diversamente il teatro, ci sarebbe più tempo per preparare spettacoli migliori. Lei mi conferma che tempi di lavorazione maggiori hanno comportato una qualità più elevata nel prodotto.
Se parliamo dei finanziamenti del Fus, perché in ambito teatrale ci riferiamo prevalentemente a questi, il problema non è solo la quantità: vanno anche distribuiti meglio. C’è poi da colmare la sfasatura rispetto alla programmazione. Questa è la problematica che noi avvertiamo quest’anno. Per la prima volta siamo assegnatari del bando Fus triennale. Ma a tutt’oggi non sappiamo in che misura saremo premiati.
Tra meno di quindici giorni si alzerà il sipario sul Todi Festival e non abbiamo contezza degli importi. Come tutte le imprese, anche quelle culturali hanno dei costi e sono i budget a determinare le scelte. Sarebbe bene che le tempistiche di erogazione, come quelle di assegnazione, collimassero con i tempi di produzione.
Forse dovremmo considerare il teatro un’azienda, piuttosto che una compagnia di liberi pensatori…
Toglierei il forse. Sono uno che in questo mondo ci è capitato per caso, vengo da altre strade e questo mi dà un’apertura diversa. Non posso non notare che c’è qualcosa che non torna. Ci piace parlare dell’industria culturale e creativa italiana. Ma se usiamo la parola industria, dobbiamo essere consapevoli che l’industria si muove su dei binari ben diversi da quelli che vedo. Soprattutto diversi dall’astrazione dei teatri e, in generale, del mondo che ruota attorno alla cultura.
C’è una tematica che collega i vari spettacoli, un fil rouge?
Una tematica è quella di non avere un fil rouge. L’altra tematica è quella di non celebrare nulla. Ogni volta che è arrivato il Dante di turno, o qualsiasi altro Shakespeare, ce li siamo tranquillamente tolti di torno.
Non mi piace seguire le mode, figuriamoci quelle che sono dettate da anniversari di personalità morte. Preferisco dare spazio a Dante un anno prima o quello successivo, ma non l’anno in cui si assiste a una sorta di “intasamento in tangenziale” di tantissime proposte. Una confusione pazzesca che alla fine non fa bene né a Dante né a noi stessi, penso.
Il festival anche quest’anno spazia tra letteratura, teatro, musica, arte contemporanea. Todi è una città d’arte. Il palinsesto del Todi Festival è studiato per inserirsi in un discorso di ampio respiro, per incrementare l’offerta turistica della città?
Sì, perché il festival è pensato anche come strumento di marketing territoriale. Quindi il nostro obiettivo è quello di colpire più target. Il festival, quando è nato, aveva una forte caratterizzazione legata al teatro, anche di sperimentazione: questo è nel suo DNA. Poi abbiamo voluto spaziare aprendo ad altre arti performative. Quest’anno approda a Todi Fabrizio Plessi con le sue installazioni digitali. Avremo il circo contemporaneo, la danza. Un omaggio a Patrizia Cavalli, considerata una delle più grandi poetesse italiane del secondo Novecento, originaria di Todi, alla quale abbiamo dedicato una giornata durante la quale sarà omaggiata da Mariangela Gualtieri. Il concerto di piano e voce, in esclusiva regionale, del giovane talento Frida Bollani Magoni.
Patty Pravo terrà il concerto conclusivo. Quest’anno ci siamo accorti che in piazza tornavano tantissimi artisti ma giovani o che si rivolgevano a un target di giovani e giovanissimi. La scelta di Patty Pravo è dettata non solo dalla sua dimensione teatrale, ma è anche una proposta per persone che hanno superato i 50. Un pubblico che apprezza una rockstar, ma che ascolta con piacere anche una grande artista legata a un periodo diverso.
Barbera a Venezia ha detto c’è poca qualità perché ormai i film vengono fatti in serie. Nota la stessa cosa nel teatro?
Quello che ascolto dagli operatori del settore, e che noto, è che da parte di coloro che sono già arrivati c’è una certa stanchezza, probabilmente anche fisiologica, dettata dal difficile periodo attraversato. Da parte dei giovani, temo ci sia una presunzione nel pensare di essere già arrivati prima ancora di aver portato avanti un percorso di duro lavoro che, come in tutti i settori, va fatto senza scorciatoie.
Quindi, da una parte c’è bisogno di ritrovare lo smalto, dell’altra di rimettere in pista la parola gavetta. Purtroppo, e questo lo dico con rammarico, c’è la difficoltà a retribuire gli operatori culturali come attori. Deve essere giusto pagarli. Purtroppo le risorse che abbiamo a disposizione sono inferiori a quelle che una massaia ha per il proprio idraulico quando viene a riparare il rubinetto di casa. Un artista che prepara un lavoro per diverse settimane, è quasi sempre sottopagato. Credo che se dovessimo pagare il lavoro in base al tempo necessario per farlo, gli ultimi in classifica, dal punto di vista della remunerazione, sarebbero attori, ballerini e artisti in genere.