di Antonio Salvati
Ci stiamo instagrammizzando. Secondo l’ultima analisi di Social Media Trends 2022 l’ascesa di TikTok in Italia è indiscutibile (gli utenti unici mensili sono circa 14,4 milioni). La presenza su TikTok diviene dunque sempre più un must per aziende, brand, enti e organizzazioni. Tant’è che anche le campagne elettorali sono sbarcate su Instagram e Tik Tok, con la speranza di conquistare il consenso della generazione z. Tuttavia, occorre considerare che qui le vere campagne elettorali vengono create e portate avanti dagli influencer e non dai politici. In altri termini, sembra impossibile vivere senza un profilo social. Addirittura è stato stimato un prezzo del vivere senza social, seppur non siano pochi gli utenti Internet non presenti o quasi del tutto inattivi sui social, che considerano queste piattaforme come uno dei tanti servizi gratuiti del web senza avvertirne l’ansia da disconnessione, in quanto non ha alcun “doppio” digitale di cui prendersi cura. Molti vivono il timore di essere dimenticati, chi dai propri amici, chi dai colleghi di lavoro, disconnettendosi dai social senza preavviso. E poi vivere senza social comporta non solo privarsi di una serie di informazioni più o meno indispensabili, ma anche quello – meno evidente – di favorire un’inutile dose di sospetto nel prossimo. Infatti, l’esigenza di mostrarsi “trasparenti” non è più un imperativo solo per la classe dirigente o per le aziende. E’ pratica comune “sbirciare” nei nostri profili social per sapere chi siamo o prima di accordarci la fiducia di un incontro, di un contratto.
La scrittrice Guia Soncini da tempo è un’attenta osservatrice di quanto gravita attorno ai nuovi social, soprattutto nell’analizzare gli ego che si gonfiano e questa voglia inestricabile di dirci come stiamo diventando e quant’altro. Con la sua consueta ironia, nel suo volume L’economia del sé. Breve storia dei nuovi esibizionismi (Marsilio, 2022, pp. 192, € 17,00) prende in esame Instagram, piattaforma dove mettere tutto in piazza: figli, tradimenti, mariti che tornano, mariti che vanno e chi più ne ha più ne mette. Tutto scaturisce semplicemente dal nostro bisogno di parlare di noi. E di chi abbiamo sposato, dei nostri amici, dei parenti, dei colleghi di lavoro. E di quelli che ci amano. Un fascio di egocentrismi. Tanto vale monetizzare – osserva la Soncini – tanto sciupio di sé stessi e di quelli che ti vivono accanto.
Ma quando è cominciata – si chiede l’autrice – questa “economia del sé”, e da quando tutti noi abbiamo pensato di poter vendere non solo i nostri prosciutti (il riferimento è al celebre spot del prosciutto Parmacotto del 1992 interpretato da Sofia Loren che pronunciava il famoso “Accattatevill“), tipo centrini all’uncinetto, o quella merce deprezzata che sono le opinioni e che l’autrice chiama «penzierini», cioè fuffa, ma soprattutto noi stessi? Un libro sulla nostra smania di esistere e di vederla convalidata attraverso una foto perché, come cantava Lucio Dalla, «vedi, amico mio, come diventa importante, che in questo istante ci sia anch’io». Perché «ho anch’io un’opinione sulla notizia di cui è di moda parlare, ho anch’io un aneddoto buffo e commovente su mio figlio che fa la didattica a distanza, sulla mia anziana madre malata, sul cartone animato che tutti ricordiamo, su quella volta che». Il volume della Soncini è un godibile saggio per tanti versi duro ma realistico che attraverso l’immagine del “prosciutto” ci mostra il profondo cambiamento nell’economia del vendere sé stessi per attenuare, sedare il nostro vuoto interiore che spesso scaturisce dall’ansia di esistere nella società odierna, mettendo così a nudo le debolezze umane che ci rendono schiavi dell’instagrammare la nostra vita per ottenere l’altrui consenso. Abbiamo tutti – direbbe la Soncini – dubbi e ragione su tutto, qualunque punto di vista vale e qualunque controcorrentismo ha il suo posto nel correntismo. Tutti nutriamo il desiderio che resti una prova di tutto quel che si fa. La paura di non esserci è – in casi spesso tracico comici – invalidante: ti spinge a non riconoscere le occasioni in cui non lasciare tracce è l’obiettivo principale (come i delinquenti che, in maniera irresistibile, mettono in rete le loro malefatte con il serio rischio di essere incastrati). L’esibizionismo è diventato non solo normalità, ma diritto; non solo diritto tuo a esporti, ma dovere degli altri di trovarti interessante. La nostra «presa della Bastiglia è la presa della visibilità da parte dei mediocri. L’unico eccezionalismo che tolleriamo è l’eccezionalismo di massa». In particolar modo, la Soncini prende in esame alcuni protagonisti di questa “religione ombelicale”, da Chiara Ferragni (tra le principali protagoniste degli inventori dell’economia del sé) fino a Monica Lewinsky, il cui principale errore fu essere in anticipo su un tempo in cui pretendere attenzione è diritto, dovere, norma e pratica comune (ai tempi di Clinton non c’era Instagram, non c’erano i social).
Era già così prima? È tutto cambiato? Era imprevedibile? C’era da aspettarselo? Effettivamente, il mondo non è mai cambiato così rapidamente come dalla fine del secolo scorso all’inizio di questo, e ora accade – spiega la Soncini – che «gente della mia età – che in un paese a maturazione tardiva come l’Italia è ancora considerata giovane promessa – debba spiegare a chi ha vent’anni di meno che una volta era normale pagare tutto, persino le telefonate. Vieni, piccina, mi metto una coperta sulle gambe e, mentre sorseggio il brodino, puoi consultare le bollette che alla tua età pagavo per avere internet a casa e fare le interurbane. Sì, sono ottocentomila lire a bimestre. Sì, adesso con dieci euro hai le chiamate illimitate e internet ad alta velocità. No, non te lo spiego cosa fossero le interurbane, oggi abbiamo già fatto troppa archeologia».
Il problema non nasce coi social, ma è di qualche anno prima. Michael Goldhaber venticinque anni fa si mise a riflettere su quello che era ancora un fenomeno agli inizi, l’overdose informativa, facendo propria una riflessione fatta nel 1971 da Herbert Alexander Simon, secondo il quale in un mondo ricco d’informazioni, questa ricchezza implica la scarsità di qualcos’altro: una penuria di ciò che dall’informazione viene consumato; «ed è abbastanza ovvio – ci ricorda Soncini – cosa sia che l’informazione consuma: consuma l’attenzione di chi la riceve. La sintesi – ogni cambiamento sociale ha bisogno d’uno slogan, in modo che, quando lo capiamo con decenni di ritardo, possiamo rimproverarci: siamo proprio ottusi, quel tizio lì ci aveva pure fornito lo slogan – è: l’economia dell’attenzione».
Il blogger americano di successo Mark Manson ha sostenuto che i mitomani e le vittime («spesso coincidenti nello stesso individuo, nel carattere italiano») hanno lo stesso problema: credono d’essere speciali. È quella che chiama «la tirannia dell’eccezionalismo». Quello che Manson indirettamente ci dice è che il successo di Chiara Ferragni, «che è lo stesso successo che negli anni Novanta incarnavano i protagonisti dei migliori romanzi comici inglesi – Il diario di Bridget Jones, Alta fedeltà – e prima ancora era stato il successo delle televendite di Mike Bongiorno: di tutti quei prodotti che ci fanno da specchio, facendoci rendere conto di ciò che neghiamo ma in fondo sappiamo. Che siamo mediocri. Ma, se è mediocre l’eroina del romanzo o la protagonista di Instagram, allora la mia mediocrità va bene». «La verità è che non esiste alcun problema che sia personale. Se hai un problema, è probabile che lo abbiano avuto milioni di persone in passato, e che lo abbiano adesso, e che lo abbiano avuto in futuro».
Anche i social, in fondo, hanno la loro parte di responsabilità circa l’urgenza di esprimerci sempre, su tutto, «istantaneamente, senza freni, senza ritegno, senza rete. Una specie di Tourette collettiva. L’opinionismo come disturbo neurologico. Chissà come faceva Guccini, quando nel 1987 incise Signora Bovary, a sapere che vent’anni dopo sarebbe arrivato Twitter», sintetizzato nel verso «battute argute di architetti postmoderni». Responsabilità spettano anche a Radio Radicale, «e dei suoi microfoni aperti che facevano sembrare Gianfranco Funari un raffinato politologo». Che dire di coloro che chiamavano una radio quando i telefoni erano attaccati al muro e le telefonate si pagavano? C’era, inoltre, un filtro di tipo pratico alla nostra smania di dir la nostra. Infatti, per manifestare il nostro “dissenso” dovevamo scrivere una lettera, andare a comprare un francobollo, trovare una buca. Adesso, nel tragitto in metrò da casa all’ufficio, possiamo criticare chiunque, «il sindaco che è sicuramente colpevole del nostro non trovare mai parcheggio sotto casa, un editorialista di cui abbiamo letto solo il titolo, e il conduttore televisivo che abbiamo guardato la sera prima già spiegandogli come si fa il suo mestiere, incapace che non è altro». E tutto questo gratis. Certo le compagnie telefoniche – sottolinea ironicamente la Soncini – non contribuiscono «alla normalizzazione di comportamenti che una volta erano prerogativa dei picchiatelli che facevano volontariato degli spot urlando «Italia 1» o salutavano dietro l’inviato del tg».
Potremmo chiederci al termine – manifestando così la mia smania di dire la mia e, magari, dando spunti alla Soncini per il suo prossimo volume – se la scarsa autenticità e la precarietà delle relazioni umane odierne – che tali erano anche ieri – non sia solo, o in buona parte, attribuibile ai telefoni con incorporato un obiettivo fotografico?