di Antonio Salvati
Non sono pochi i libri che trattano diffusamente la “centralità” della questione carceraria, relativamente alla consapevolezza dello strettissimo rapporto che lega la condizione delle carceri alla qualità civile di una società. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione», pare avesse saggiamente ammonito Voltaire. L’indifferenza (o l’ingiustizia) nelle carceri significa anche indifferenza (ingiustizia) della società verso la persona umana, ha sostenuto Vincenzo Paglia nel fortunato volume scritto insieme a Raffaele Cantone, La coscienza e la legge (Laterza 2019). Al contrario, non innumerevoli sono i romanzi o frammenti autobiografici sui detenuti. Alcuni testi sono celebri come le crude pagine delle Memorie da una casa di morti (1861-1862) di Fëdor Dostoevskij che il carcere lo conosce bene, dal momento che in gattabuia c’è finito per davvero, rischiando addirittura di essere giustiziato.
Hanno aggiunto il loro originale tassello alla narrativa penitenziaria, Patrizia Chelini e Aldo Ciani, con il loro volume Rocca, Storie tra dentro e fuori (Sensibile alle foglie, Roma, pagine 160, euro 16,00) che ben si attaglia agli auspici espressi nel 2020, in piena pandemia, da Papa Bergoglio che significativamente e laicamente sostenne che ciascuno di noi ha «bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme. Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita». Infatti, «l’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità (cfr. Gen 3,21), ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di “rivestirsi” di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti».
Si tratta di un romanzo sociale e corale, dove le vite di molteplici personaggi, all’inizio scollegati tra loro, poi si incrociano, si toccano, si intrecciano, invitando il lettore a compiere non solo uno sforzo di immedesimazione, ma anche una riflessione sul carcere, ossia quel luogo istituzionale in cui si somministra una “sofferenza legale”, una pena detentiva giuridicamente stabilita dosata in maniera tale da consentire la “possibile rieducazione” del reo. Sono decenni che si riflette sulla funzione della pena detentiva e sulle sue modalità di esecuzione. La pena carceraria «in una società democratica – ha spiegato Patrizio Gonnella – ha dei limiti insuperabili, imposti dall’ordinamento giuridico e dal senso etico. Limiti che sono riconducibili alla protezione della dignità umana intesa nel suo significato kantiano di umanità e di non riducibilità dell’uomo a mezzo».
L’articolo 27 della Costituzione nel prevedere al suo terzo comma che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» suggerisce di non mettere in competizione funzione rieducativa e rispetto della dignità. Come ha stabilito la sentenza 313/1990 della Corte Costituzionale, la rieducazione è infatti una delle qualità essenziali della sanzione penale, che «l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue». Il verbo “tendere”, presente nel dettato costituzionale, rappresenta solo «la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione». La sfida è non relegare il carcere a un’isola separata dal mondo esterno, ma mettere sempre più in relazione con la città una comunità fatta di storie, relazioni, problemi.
E il libro di Chelini e dell’esordiente Ciani si rivela prezioso per meglio comprendere alcune tematiche carcerarie come quella relativa allo scorrere del tempo all’interno delle mura carcerarie. Una delle voci narranti del romanzo recita che «non siamo mica eterni. In carcere questa consapevolezza è schiacciante. Le giornate passano in modo innaturale, come se fosse una pausa dalla vita vera. Ma mentre tu stai dentro la vita vera continua, fuori, e anche il tuo tempo biologico scorre, così stai in pausa ma ti vengono sottratti giorni, mesi, anni, e non siamo mica eterni. Il tempo della pena è il sottraendo in un’operazione in cui non si sa il primo termine, quello detto minuendo. Magari sei tutto contento, esci, e dopo poco ti ammali e muori.
C’è stata gente che è morta così, davvero. C’è chi si abitua invece, come se fosse vita anche quella in carcere. Se ne fa una ragione, prende sane abitudini, si fa degli amici». I detenuti descrivono questa sorta di ripetitività esasperata delle giornate come una sorta di “malattia del tempo morto” che, talvolta, portata all’esasperazione conduce al suicidio. Come accadde ad «Ahmed (che) era appena entrato. Aveva ventidue anni, tutta la vita e tutta la pena davanti. Pensava di poter usufruire delle misure alternative e non ci è riuscito. Chissà se è stato per rabbia o per disperazione che si è suicidato inalando il gas di una bomboletta da campeggio. O per vergogna». «Purtroppo – come ha affermato pochi giorni fa Papa Bergoglio – nelle carceri sono tante le persone che si tolgono la vita, a volte anche giovani». Le parole del Pontefice trovano un tragico riscontro nei numeri. Dall’inizio dell’anno sono già 59 le persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre, contro i 57 di tutto il 2021. Un morto ogni cinque giorni.
Questo è un libro che celebra gli outsider, i personaggi respinti dalla società tradizionale, mandati in esilio perché non soddisfano i criteri di un certo tipo di stile di vita. Inoltre, aiuta a riconoscere il simile nel dissimile, a riconoscere che la propria frustrazione non è così diversa da quella di chi ci sta accanto e ci può far fare, a loro e a noi, cose orribili. A riconoscere che la difficoltà di affermare un certo orizzonte non significa ancora la fine della possibilità di resistere, nonostante tutto, non significa ancora arrendersi ad affrontare il mondo da soli, anzi, parafrasando Leopardi e la sua dimensione agonica: «tutti gli uomini stretti in un patto di alleanza, offrendo ed aspettandosi un aiuto efficace e immediato nei pericoli e nelle angosce della lotta comune».
La voce narrante che ci conduce in questo non-luogo per eccellenza spesso rifiuta la sua stessa identità, perché è una voce liquida: a volte rimane anonima, a volte è esterna, a volte è nella testa di qualcuno, a volte è l’amico di un personaggio, a volte appartiene completamente o in parte a un personaggio e, come posseduta, lo lascia emergere e prende il suo carattere. Ha un tono allo stesso tempo umile e pungente. Spesso è un lungo flusso eloquente, altre volte è lapidaria. A volte ha una confidenza amicale. A volte trasuda sincerità e nessun timore di dire quello che pensa, non ha problemi a prendere posizioni, ragiona. È una voce franca, sicura, diretta, senza età, parla come qualcuno che ha una lunga esperienza di vita e allo stesso tempo ha la pura ingenuità dello sguardo di un bambino.
Lungo questo percorso incontriamo diverse storie come quella di Aurelia, direttrice del carcere, e il suo progetto di dare la possibilità ai detenuti di lavorare all’esterno; quella di Padre Angelo, che vuole portare la città dentro, a cominciare da Fabrizia e la sua amica, per accompagnare con la chitarra i canti della Messa alla Cappella del Penitenziario. Si intrecciano i pensieri di Vincenzo, detenuto per rapina, di Maurizio, agente di custodia, dello scrittore Andrea e della psicologa Alice. L’ultimo capitolo chiude il cerchio, mostrando come, talvolta, l’incontro tra esperienze diverse possa suggerire un cambiamento di percorso.
Lo spiega bene Fabrizia: «Io per me mi sono fatta un’idea: se le cose non si possono cambiare direttamente, come sognavano mamma e papà, e ancora prima i nonni, tramite la militanza, bisogna farlo con la prossimità, la cura e la costruzione di relazioni umane autentiche, remando in direzione ostinata e contraria (mi chiamo Fabrizia mica par caso) rispetto a una società piena di spinte centrifughe e individualiste. Che, a proposito, tanto dai diamanti non nasce niente, per i fiori ci vogliono vite di merda come le nostre».
Don Mazzolari, grande credente del secolo scorso, scrisse che Gesù entrava in paradiso assieme al buon ladrone, al cattivo ladrone e anche a Giuda. E, con qualche compiacimento, commentava: «Che corteo!».