di Alessia de Antoniis
La Signorina Giulia di August Strindberg, adattamento e regia di Leonardo Lidi, è andato in scena in prima regionale al teatro Vascello di Roma. In scena Giuliana Vigogna, Christian La Rosa e Ilaria Falini.
Un muro lapideo, scuro come pietra lavica. Buio. Un’apertura verticale illuminata, a destra: una sorta di pozzo. Luce.
Un cunicolo orizzontale illuminato, ad altezza non umana. Ancora luce. Sembrano i tunnel che le talpe, cieche, scavano nel sottosuolo. Gli stessi cunicoli che gli esseri umani aprono nelle convenzioni sociali, nei pregiudizi, negli schemi mentali: altrui e propri. Spazi angusti dove respirare, muoversi, ma non sufficienti a stare eretti o abbastanza larghi per potersi sdraiare a riposare. Sempre curvi o rannicchiati, nello spazio come nella mente.
Così l’imponente scenografia di Nicolas Bovey si para davanti allo spettatore, veicolandone lo sguardo.
È la notte di San Giovanni. Una notte dal nome cristiano ma dai riti pagani. Una notte magica, durante la quale anche cose impossibili possono accadere. La notte delle streghe. Una notte dove le divisioni si assottigliano, quelle tra un ceto e l’altro, quelle tra un sesso e l’altro. Solo i muri interiori restano tali. Granitici. Invalicabili.
Blocchi di pietra illuminati da una luce fredda, rinchiudono Giulia (Giuliana Vigogna), giovane figlia del conte, Cristina (Ilaria Falini), cuoca e fidanzata di Gianni, Gianni (Christian La Rosa), domestico del conte.
E per una notte, solo per quella notte benedetta e maledetta, comunque magica, i tre formeranno un triangolo. Ma con la punta verso il basso, legato ai regni bassi dell’uomo, alle sue pulsioni, ai suoi condizionamenti. Un triangolo che non volgerà la punta verso l’altro, verso la crescita, la trasformazione, la liberazione. Giulia, Cristina e Gianni sceglieranno di vivere, ciascuno a modo proprio, il suo inferno che, per quanto terrificante e angusto sia, è uno spazio conosciuto.
Cristina, in pedi, dritta come un rampicante tra due pali, sa qual è il suo posto: nel pozzo delle convenzioni e delle convinzioni. Quando dorme, sul fondo, non ha spazio per allungarsi: costretta nel corpo come nella mente, compressa nel suo ruolo, consapevole che saltare il muro non è per lei. Recita muta anche quando non ha battute. Con la sofferenza sul volto, lo stupore e l’indignazione nei suoi occhi chiusi per non vedere; le mani sulle orecchie per non sentire. Indossa un abito nero. Buio.
La signorina Giulia. Lei è “pazza, completamente pazza”. Lidi la fa camminare curva o strisciare solo nel cunicolo orizzontale, posto più in alto. Appartiene alla classe sociale superiore, ma vive piegata dalle convenzioni ed ai giudizi altrui. E quando decide di uscire da quelle pareti, non lo fa con consapevolezza, ma spinta dal desiderio. Il disperato tentativo di libertà, illusa dalla voce dell’amore, la renderà vittima, alla stregua dell’uccellino che Gianni, cinicamente, attira fuori dalla gabbia per ucciderlo. Veste di bianco. Luce. Vergine, divina, Giulia è ciò a cui un domestico non dovrebbe neanche pensare. Giuliana Vigogna la rende ora dolce, ora isterica. Sottomessa e dominante. Ferina: negli atteggiamenti e nei toni.
Nel cunicolo orizzontale, Giulia e Gianni si scontrano in maniera animalesca, alternando odio e amore, amplesso e lotta di classe.
Gianni. Lui che progetta una fuga d’amore, che riesce ad ammettere il suo sentimento per Giulia rimasto intatto negli anni, è l’unico al quale Lidi consente di attraversare entrambi i cunicoli. È fidanzato di Cristina, ma vìola Giulia. Rompe con lei le convenzioni entrando in quel cunicolo basso, dove però non è consentito stare in posizione eretta. Gianni è Strindberg, il figlio della serva, scomodo in entrambi gli spazi. Lidi lo veste metà di bianco e metà di nero. Amore e odio.
Ma Gianni è colui il quale “anche quando sogno ho paura di volare”.
Christian La Rosa oscilla, col corpo e con la voce, tra desiderio e repulsione, passione e razionalità; tra i ricordi di un amore fanciullesco mai sopito e il rancore di chi ambisce alla lotta di classe. Cede alla passione di Giulia animalescamente e la disprezza per aver rotto i ruoli, per aver ceduto ai suoi istinti, per non essere più pura. Bianca. Luce.
Lidi ci restituisce una Signorina Giulia essenziale, dove nulla distrae l’occhio dello spettatore che resta concentrato sui personaggi. I dialoghi sono il vero protagonista. È come se la parte testuale, recitata, fosse la tela, e la parte visiva la sua cornice.
Una Signorina Giulia dove, prima che il buio cali completamente, la luce fredda diventa per un attimo calda, illuminando Cristina, che quella notte di San Giovanni ha reso consapevole.
Una Signorina Giulia dove, come spiega il regista, “nello spavento del domani l’unica stupida soluzione è quella del gioco al massacro, il cannibalismo intellettuale. L’inganno. Perché, quando lo spazio è troppo piccolo, fai l’amore con chi c’è, con l’ultimo uomo sulla terra, lo contendi con l’altra donna, cerchi di sedurlo sapendo già che tra pochi attimi lo odierai”.
“Ho sognato talvolta di trovarmi appollaiata sulla cima d’una colonna senza sapere come fare per scendere. Stavo più in alto delle nuvole. Tuttavia dovevo scenderne, ma mi mancava il coraggio di buttarmi giù”, recita Giulia.
Mancanza di coraggio. Quello di aprire i cunicoli nella pietra, di allargarli fino a camminare dritti, facendo entrare la luce calda del sole. Il coraggio di rompere gli schemi imposti dalla società patriarcale di quel conte invisibile in scena eppure onnipresente. Il coraggio di andare fino in fondo. Non la follia di una notte. Quella magica notte di San Giovanni, la cui alba vedrà il nuovo sole del solstizio illuminare, caldo, solo chi sarà sopravvissuto.
Un bellissimo lavoro di Strindberg, grazie al quale Leonardo Lidi ci riporta in teatro.