di Antonio Salvati
Il cristianesimo, fin dalla sua nascita, ha introdotto un’importante originalità nei rapporti tra religione e società, tra appartenenza religiosa e appartenenza alla polis. Lo stesso invito di Gesù «rendere a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mc 12, 17 e par.), rappresenta una distinzione tra potere politico ed evento cristiano che nel corso dei secoli ha influenzato i cristiani nei loro rapporti sociali nella vita nella collettività. E il loro rapporto con la società ha trovato soluzioni molto diverse nella storia, divenendo spesso occasione di incontro, di confronto, e in tante altre circostanze scontro tra Chiesa e società civile. Nei primi tre secoli i cristiani riconoscono la legittimità dell’impero romano e la loro battaglia anti-idolatrica provocherà una forte diffidenza nei loro confronti, tant’è che si rifiutano di fare parte dell’esercito imperiale, si mostrano assai critici verso i costumi e le consuetudini sociali della polis. A causa di ciò feroci persecuzioni si abbatteranno su di loro durante i primi secoli della nostra era. Un testo cristiano importante della stessa epoca, La Lettera a Diogneto, parla dei cristiani come «anima nel mondo», interpreta la loro solidarietà con la compagnia degli uomini, mostrando una visione positiva della società e una simpatia con la storia degli uomini: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano neppure città proprie, né usano un linguaggio particolare, né conducono un genere speciale di vita. Ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera».
Ne è convinto assertore Andrea Riccardi, iniziatore della Comunità di Sant’Egidio, che con suoi studi ha evidenziato quanto i cristiani camminano nella storia, «quella della loro vita di ogni giorno, come quella più grande che irrompe nella loro esistenza e nella società in cui abitano». Anche se talvolta si sono rifugiati in un orizzonte ristretto, temendo «”il mare aperto della storia”, disabituati a misurarsi con le sue onde, anche se in realtà niente li ha protetti dagli spruzzi del mare o dalla forza delle acque». Molti hanno scelto e continuano a scegliere una vita chiusa con la consapevolezza che poco si possa fare di fronte ai grandi processi politico internazionali. Ma come continuare a farlo di fronte alla guerra, che tutto travolge è la domanda che si pone Riccardi nella sua ultima fatica, La scelta per la pace. Meditazioni tra Bibbia e storia (Morcelliana 2022, pp. 160, € 14), sottolineando quanto nel mondo globale la guerra non rimane isolata, ma trasmette le sue conseguenze ovunque. Non è possibile continuare a sostenere che la guerra è lontana e non ci riguarda, mentre la guerra è tornata sul suolo europeo con l’invasione russa della martoriata Ucraina e tuttora non si vede una via d’uscita. «Tutto ciò che è umano ci riguarda», scriveva Paolo VI nel 1964 nell’enciclica Ecclesiam suam. Pertanto, il cristiano non può permettersi di ignorare la realtà in cui vive. Non a caso, Paolo VI nel 1969 affermava «che uno degli atteggiamenti caratteristici della Chiesa dopo il Concilio è quello di una particolare attenzione sopra la realtà umana, considerata storicamente […] Una parola del Concilio è entrata nelle nostre abitudini: quella di scrutare i “segni dei tempi”». E questa locuzione ha acquistato un significato molto profondo, «cioè quello dell’interpretazione teologica della storia contemporanea».
Il libro di Riccardi è il tentativo riuscito della testimonianza di uno sforzo quotidiano di leggere la Parola di Dio nella storia e di vivere la storia di ogni giorno alla luce della Bibbia. Le meditazioni raccolte nel volume si sviluppano nella realtà di ogni giorno e risentono particolarmente degli echi delle tensioni internazionali (non solo il conflitto ucraino, ma anche quello che affligge il Sud Sudan, il Mozambico e la martoriata Siria dove ci sono ragazzi la cui giovane vita ha visto solo il tempo di guerra). Riflessioni che costituiscono – sostiene Riccardi – «un circuito di ascolto, di fede, di partecipazione alla vita che fa di noi uomini e donne di pace, eirenikos genos, una stirpe pacifica, come diceva Clemente di Alessandria».
Il mondo globale ha portato la pace, ma anche ha prodotto tanta guerra. Negli anni, è cresciuta l’assuefazione all’idea che la guerra sia una compagna naturale della storia. Si è andato attenuando quel grande patrimonio di tensioni, ereditate dal Novecento che tendevano a unire i destini oltre i confini. Giorgio La Pira, il «sindaco santo» di Firenze, le chiamava “tensioni unitive”: tensioni alla pace, l’ecumenismo, la responsabilità verso i mondi più poveri, la cooperazione per una giustizia planetaria. Questo avviene oggi, proprio mentre la crisi della terra rivela, con un’evidenza indiscutibile, che abbiamo un solo destino: «tutti sulla stessa barca» – ha detto papa Francesco durante la pandemia. In questa coscienza ritroviamo – spiega Riccardi – le risorse per un’immaginazione alternativa che disegni una visione di pace a fronte di pensieri stanchi e rassegnati. Senza immaginazione alternativa, restiamo prigionieri di un presente senza speranza, destinati a subire l’iniziativa degli altri o la loro prepotenza. Questo tempo difficile spinge a immaginare visioni di pace con più audacia. Un’immaginazione profetica o poetica, insomma una visione, è proprio necessaria in un tempo stretto tra poche alternative.
Nel frattempo – mimetizzata – la guerra va avanti e – come ha osservato giustamente Mario Giro, nel corso del recente Meeting di Sant’Egidio Il grido della Pace – cerca di «creare le condizioni (materiali e psicologiche) per il suo protrarsi, fino a diventare permanente. È questo l’ingranaggio micidiale: un mondo sempre in guerra, scosso da scontri, crisi o almeno contrapposizioni». In piena sintonia con Papa Francesco, Giro sostiene «che le guerre non risolvono i contrasti o le crisi internazionali come hanno insegnato innumerevoli precedenti. Occorre più che mai la trattativa, la mediazione e la pacatezza di giudizio; morte e distruzione non cesseranno senza negoziati e concessioni, purtroppo gravose». Riccardi avverte che i cristiani e le religioni non sono fossili, che la modernità alla fine seppellirà. I cristiani sanno e possono raccogliere gli aneliti di comunità radicate nelle terre, vicine al dolore, alla gioia e al sudore delle persone. Fare proprie la preghiera dei disperati in luoghi inumani o nei viaggi terribili dei profughi. In un tempo in cui si rafforza la volontà a securizzare i propri spazi, a fortificare le identità, ad attaccare arbitrariamente, al parlarsi duro, a guerre senza fine, i cristiani con il loro impegno e con la loro preghiera rappresentano una risorsa di libertà di fronte ai prepotenti semplificatori del nostro tempo, invece in sé tanto complesso, anzi inspiegabile con le semplificazioni.