Andrea Gavosto racconta la scuola bloccata (e anche fragile)
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Andrea Gavosto racconta la scuola bloccata (e anche fragile)

Gavosto dirige da oltre dieci anni la Fondazione Giovanni Agnelli, organismo senz’altro tra i protagonisti più importanti del dibattito pubblico sull’istruzione nel suo complesso

Andrea Gavosto racconta la scuola bloccata (e anche fragile)
Andrea Gavosto
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27 Novembre 2022 - 23.09


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di Antonio Salvati

Il sistema scolastico italiano è grande e complesso. Pur limitandoci alla fascia d’età fra i 6 e i 19 anni (escludendo infanzia ed Università), esso coinvolge ben 7 milioni di studenti e oltre un milione di insegnanti e altro personale; si articola su 8.300 istituti e 40 mila edifici. Ce lo ricorda l’economista Andrea Gavosto, nel suo ultimo volume La scuola bloccata (Editori Laterza, 2022, € 15,00, pp. 208).

Gavosto dirige da oltre dieci anni la Fondazione Giovanni Agnelli, organismo senz’altro tra i protagonisti più importanti del dibattito pubblico sull’istruzione nel suo complesso. Al di là delle sue dimensioni ragguardevoli, è il ruolo che gioca nello sviluppo civile, economico e sociale a rendere la scuola uno degli architravi della nostra collettività. Studiare – è ormai assodato, spiega Gavosto –«ci rende più sani, più ricchi individualmente e come paese, più aperti al mondo: chi possiede un titolo di studio elevato in media vive più a lungo; trova lavoro più facilmente e guadagna di più; è più aperto al confronto con gli altri. È, insomma, un cittadino migliore. In maniera analoga, i paesi che investono di più in istruzione crescono più degli altri e sperimentano una maggiore mobilità sociale». L’intento di Gavosto – pienamente e adeguatamente riuscito – è duplice: portare all’attenzione dei lettori – delle famiglie in particolare – le fragilità del nostro sistema scolastico ed educativo e di indicare le possibili misure per porvi rimedio. Tutto ciò attraverso un agile libro – indispensabile per gli addetti ai lavori – che ci fornisce un chiaro, sintetico scenario del mondo scolastico.

Lo sentiamo ripetere spesso: l’Italia è in ritardo ed investe poco in istruzione: il 3,8% in relazione al Prodotto interno lordo, quando la media dei paesi avanzati si attesta al 4,5%. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, finanziato dall’Unione Europea, è un’importante e decisiva opportunità. Aprirà una pagina nell’ambito dell’istruzione: gli interventi previsti sono ragguardevoli, ammontando a circa 20 miliardi, un decimo del totale. Buona parte di essi spetteranno all’edilizia scolastica e alla scuola dell’infanzia, fra 0 e 6 anni: oltre a effettuare gli investimenti, l’Italia si è impegnata – ricorda Gavosto – con l’Ue a realizzare una serie di importanti riforme del sistema scolastico – dalla formazione ai meccanismi di assunzione dei docenti – che sono l’oggetto del libro. L’impegno è inderogabile, pena la perdita dei finanziamenti: «i vincoli sono un modo di superare la tradizionale incapacità del nostro sistema politico di assumersi impegni che travalichino la (breve) esistenza dei governi. Potenzialmente, si tratta di una vera e propria inversione di rotta nell’azione di governo, che dovrebbe consentire di avvicinare il nostro sistema educativo a quello degli altri paesi avanzati».

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Tuttavia, sarebbe ingiusto non riconoscere che, dal dopoguerra a oggi, l’istruzione italiana ha compiuto passi straordinari, raggiungendo fasce sempre più ampie della popolazione. Ma ciò, evidentemente, non basta. Non possiamo osservare solamente la media degli anni di istruzione o i titoli di studio ottenuti. Occorre considerare la qualità dell’istruzione ricevuta dagli studenti e dalle studentesse. E la situazione italiana appare tutt’altro che soddisfacente. Da quando, dall’inizio del millennio, si sono diffusi strumenti oggettivi per misurare quello che gli studenti conoscono e comprendono, simili in tutti i paesi, si è scoperto che, «dietro la facciata dei titoli di studio, in Italia vi è spesso una drammatica carenza di competenze».

Innumerevoli le questioni affrontate da Gavosto come quella fondamentale relativa alla scarsa crescita economica dell’Italia che per molti esperti scaturisce da un livello inadeguato di competenze trasmesse dalla scuola. Altri, invece, ritengono che il problema sia l’overeducation, ovvero che il sistema educativo porti ad acquisire troppe competenze rispetto alle opportunità offerte dal mercato del lavoro e che, pertanto, scuola e università si trasformino spesso parcheggi – più che investimenti produttivi – per i giovani. Le analisi scientifiche sono indiscutibilmente a favore dell’utilità dello studio. Studiare conviene ai singoli individui, sia per la maggiore probabilità di trovare lavoro sia per la maggiore retribuzione – all’ingresso e lungo tutto l’arco della carriera – che un titolo di studio elevato garantisce: «il tasso di rendimento di un anno di istruzione è infatti intorno al 10%, ben superiore a quanto potrebbe fruttare un investimento finanziario o immobiliare2. I vantaggi economici garantiti da un titolo di studio sono quindi ragguardevoli, ma inferiori a quelli medi europei, benché la percentuale di laureati nella popolazione italiana sia fra le più basse in Europa: questo dovrebbe rendere i pochi che completano tutto il percorso scolastico e universitario particolarmente “appetibili” sul mercato del lavoro». Attenzione. I vantaggi dello studio non si limitano alla sfera economica: le persone istruite hanno una speranza di vita più elevata, conducono una vita più sana, sono cittadini più consapevoli e attivi, sono più aperti nei confronti degli altri. L’investimento in conoscenze e competenze è un ingrediente essenziale del benessere collettivo. Difficilmente un paese che abbia un livello di istruzione modesto può oggi prosperare economicamente e stabilire un elevato grado di convivenza civile contando solo sul genius loci e sulla forza delle tradizioni civiche, come successe all’Italia del miracolo economico: «tecnologia e globalizzazione – spiega Gavosto – richiedono sempre più la capacità di padroneggiare un ampio corpo codificato di conoscenze e competenze, che consenta di applicare i risultati della ricerca, dell’innovazione e delle tecniche più avanzate».

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Sono varie le proposte indicate da Gavosto, tutte francamente degne di essere prese in seria considerazione, come quelle relative all’allungamento del tempo scuola (per favorire lo sviluppo di competenze con tempi più distesi); alla revisione in modo strutturale dell’assunzione dei docenti (distinguendo abilitazione e assunzione, assecondando maggiormente la richiesta di personale delle scuole anche attraverso concorsi banditi da una singola scuola); al rafforzamento della formazione dei docenti iniziale e in servizio (attraverso un sistema ‘parallelo’ che coniughi la formazione teorica con la formazione sul campo, attraverso la cooperazione fra università e scuola).

A mio avviso, sarebbe opportuno mettere mano in tempi rapidi alla riforma dei cicli. Un’ampia letteratura psico-pedagogica spiega come il rendimento degli alunni sia negativamente influenzato dal numero di passaggi fra livelli di scuola a cui i ragazzi sono sottoposti nel proprio percorso educativo, oltre che dall’età alla quale avvengono questi passaggi. In Italia, la transizione fra scuola primaria e secondaria di primo grado è problematica – spiega Gavosto – «a causa della frammentazione degli ambiti disciplinari, di una durata minore del tempo scolastico, di un profilo professionale degli insegnanti decisamente più orientato alle conoscenze disciplinari che a quelle pedagogiche, e, infine, di pratiche didattiche più passive e tradizionali. Questa argomentazione spingerebbe indubbiamente verso una riduzione del numero delle transizioni scolastiche». Si tratta di allineare il diritto allo studio con il diritto alla formazione, senza scorciare la scuola secondaria di II grado. Questo implica un ripensamento delle discipline di insegnamento e l’individuazione di un gruppo di discipline comuni a tutti gli studenti da proporre in tutti gli ordini di scuola. Compito certamente arduo quello di realizzare riforme efficienti, aggravato dal fatto che in Italia le riforme della scuola scontano solitamente l’enorme distanza temporale che intercorre fra l’adozione dei provvedimenti e l’ottenimento dei risultati attesi, probabilmente superiore a qualunque altro campo delle politiche pubbliche. Del resto, avverte Gavosto, nel campo dell’istruzione una misura decisa oggi avrà un effetto completo solo fra tredici anni, ovvero al termine del ciclo scolastico: un tempo enorme per i politici, troppo abituati ad incassare risultati tangibili nell’arco di pochi anni per garantirsi il consenso dell’elettorato. Tutto ciò induce a concentrarsi e a rincorrere successi politici immediati, concentrandosi su misure secondarie. L’importante è che siano visibili agli occhi dell’opinione pubblica. Si potrebbero fare innumerevoli esempi. Difficile trovare soluzione a questo cul-de-sac. Infatti, quale governo si impegnerà a seguire un certo sentiero di riforme per molti anni. Magari un governo dotato delle migliori intenzioni rischia di essere sostituito da uno di diverso orientamento e con differenti priorità. A questo bisogna aggiungere i difetti relativi ai meccanismi di comunicazione delle politiche pubbliche che si giocano su una sottile interazione fra politica, media e cittadini. In Italia, in particolar modo, vi è una tendenza dei media a politicizzare sempre e comunque la discussione sulle politiche pubbliche, concentrandosi sul cui prodest, ovvero su quale sia la ricaduta elettorale delle misure, più che su vantaggi e svantaggi per i beneficiari. Il pendant della “politicizzazione” delle policy da parte dei media è la “mediatizzazione” delle stesse da parte della politica. Lo strumento utilizzato dagli esponenti politici per attirare l’attenzione mediatica sulle proprie proposte d’intervento è tipicamente quello di comunicazioni semplici (frames), che hanno lo scopo di rendere la policy facilmente intellegibile al pubblico: ad esempio, “introduciamo la meritocrazia nella scuola” oppure “eliminiamo la dispersione scolastica”; affermazioni corrette, ma prive della loro complessità che indichi all’elettore che cosa si vuole fare davvero e perché è importante farlo. Come sono stati utilizzati – si chiede Gavosto – i frames nel caso della scuola? Per suscitare reazioni positive o negative da parte dell’opinione pubblica l’approccio privilegiato è sempre quello conflittuale. Raccontare o proporre una proposta in modo aggressivo genera infinite reazioni, in un crescendo di affermazioni apodittiche e contumelie: garantisce molta visibilità, ma non è certo il modo migliore di trasmettere politiche pubbliche complesse come quelle relative all’istruzione. Converrebbe affidare la descrizione delle politiche a giornalisti specializzati sul tema, evitando l’enfasi dalla politica politicienne. Inoltre, sarebbe necessario che i media non allentassero mai la presa sulle conseguenze di lungo periodo delle policy. Spesso, le amministrazioni curano poco la divulgazione di quello che viene fatto, evitando di fare uno sforzo per raggiungere tutti i cittadini con un linguaggio chiaro e accessibile.

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La storia degli ultimi anni ha dimostrato che proporre la “grande riforma” della scuola è velleitario: in tutti i segmenti della società esistono infatti forme di resistenza diffuse nei confronti delle trasformazioni radicali delle istituzioni pubbliche che presidiano il sistema di welfare4. La strada più naturale, per Gavosto, da perseguire è quella di assegnare esplicitamente alle scuole nuovi fini, in particolare indirizzandole verso una maggiore qualità degli apprendimenti.

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