di Giordano Casiraghi
Si continueranno a scrivere libri su Pasolini, uno dei più grandi letterati e artisti dello scorso secolo, morto tragicamente il 2 novembre 1975 al Lido di Ostia. Ogni anno escono riflessioni, si organizzano convegni dove partecipano fior di intellettuali pronti a spiegare tutto quello che Pier Paolo Pasolini ha rappresentato per la società italiana. Quest’anno poi decorrono i cento anni dalla nascita, in quel di Bologna, ma i suoi primi anni e quelli dell’adolescenza lo vedranno soprattutto a Casarsa nella casa della mamma friulana. Tra le tante celebrazioni colpisce il volume “Il me paìs al è colòur smarit – Pier Paolo Pasolini e Giovanna Marini” (BesaMuci, 18 €, 368 pagine) scritto da Giandomenico Curi, già protagonista di volumi dedicati a Giorgio Gaber, Django Reinhardt, Dalida; oltreché regista di “A sud della musica – La voce libera di Giovanna Marini”. Un documentario che racconta la sua ricerca nella terra salentina negli anni tra il 1969 e il 1971. E tuttavia la sua è una ricerca diversa da tutte le altre effettuate in Salento. A guidarla infatti è prima di tutto la sua passione per la musica e la voglia di innamorarsi di quella terra, del Sud, di quei canti, di quei cantatori e cantatrici di tradizione. Per lei la musica è prima di tutto libertà; e il suo è un gesto diretto, senza nessuna strategia alle spalle. Scende in Salento per capire come funziona il canto contadino (soprattutto la sua diversità, la sua alterità), per imparare, per registrare quei canti, trascriverli, studiarli, e poi ricantarli a modo suo, farli conoscere a quanti non hanno la minima idea di quel modo straordinario e antichissimo di cantare e di comunicare.
Pasolini è un riferimento costante nell’opera di Giovanna. Anche per quanto riguarda il Sud. Un Sud, quello del regista friulano, vivo e profondamente contraddittorio, un Sud inteso come grande periferia, un universo a parte, geografico, di classe, destinato alla fine a resistere, “perché i suoi valori sono superiori a quelli della borghesia”. Perché la sua storia è un’altra, fuori da quella nazionale, una “nazione nella nazione”, come dirà nelle “Ceneri di Gramsci”, una nazione di «analfabeti in possesso del mistero della vita».
Ed è soprattutto in due brani che questo rapporto tra Giovanna e Pier Paolo viene fuori: “I treni di Reggio Calabria”, una lunga ballata, molto amata da Pasolini, che mette in musica e sintetizza il rapporto appassionato e sofferto che lega Giovanna Marini al nostro Meridione; e poi naturalmente il “Lamento per la morte di Pasolini”, in cui c’è un’identificazione profonda e drammatica nel modo di rivivere la morte di quel personaggio unico e straordinario che, dice la cantautrice romana, “quando parlava ti insegnava il mondo”.
E proprio la realizzazione del film ha indotto Giandomenico Curi ad approfondire il lungo rapporto tra i due, Pasolini e Marini. In piccola parte avvenuto attraverso incontri reali, ma soprattutto attraverso la messa in musica dei testi di Pasolini da parte di Giovanna. Una storia che comincia nel 1975 appunto con il “Lamento per la morte di Pasolini” e finisce nel 2015 con l’ultima opera di Giovanna, la più complessa e definitiva, “Io sono Pasolini”. Il filo rosso: la musica e la cultura popolare, come raccontarle, viverle, rinnovarle; e soprattutto l’Italia di Pasolini riletta in musica da Giovanna tra tradizione e sperimentazione. Giandomenico si è reso disponibile per fornire dettagli e approfondire questo lungo avventuroso incontro tra Pasolini e Marini.
Direi di cominciare dal rapporto che ha Pasolini con la musica, con tutta la musica, popolare, classica, jazz, ma anche le canzoni della musica leggera e da ballo.
G.D. C. È in effetti poco conosciuta la storia musicale di Pier Paolo Pasolini. Si sa che aveva un forte rapporto con la musica classica, Bach soprattutto, e nei suoi film la presenza di Bach è fondamentale, a cominciare da “Accattone”, il suo primo film. Poi c’è il rapporto con la musica popolare che è molto sentito perché lo avvicina al suo amore per la lingua friulana. Ed è proprio da lì, su un progetto di mettere in musica le poesie friulane di Pasolini, che nasce il loro primo (e purtroppo unico) progetto di collaborazione. Collaborazione che nasce all’inizio da un pensiero che li unisce, così come li unisce la passione per Bach. Cioè la riflessione sul suono, sull’incanto fonico, sul pensiero sonoro che in Pasolini nasce già in quegli anni, ed è legato appunto alla sua enorme passione per la musica (“l’unica azione espressiva – dirà – alta e indefinibile come le azioni della realtà”). Qualcosa che ti mette in rapporto con l’anima profonda della realtà senza passare attraverso la ragione. Una musica che è dappertutto, dice Pasolini, nel paesaggio come nelle persone, soprattutto nella lingua “furlana”, nel suono danzante delle sue vocali aperte, in quello più melodioso delle consonanti. “E’ quello il periodo, – scrive Nico Naldini (il cugino friulano che è un po’ anche il suo biografo) – in cui il narcisismo del giovane poeta si concentra sugli incantesimi di un mondo primitivo e sulle sonorità antiche della lingua friulana”. Pasolini invita Giovanna ad approfondire i suoni delle parole, senza dare peso ai significati, cercare invece il suono che diventa musica, perché la musica è dappertutto: nel paesaggio, nei campi, nei ragazzi, sulle aie, e naturalmente nelle “villotte”, che sono la massima espressione in musica della lingua friulana. Da lì il progetto di fare un disco insieme, trasformando in canti una dozzina di testi poetici presi dalla raccolta pasoliniana, “La meglio gioventù”, che il poeta aveva pubblicato la prima volta a Casarsa nel 1954. Poi la morte tragica di lui blocca tutto. “Potevo solo piangerlo”, ricorda Giovanna. Ed è così che nasce il “Lamento”.
Fermiamoci un momento su questo brano che racconta la morte di Pasolini. Che mi sembra straordinario per quanto riguarda il testo, ma soprattutto per quanto riguarda la musica, la struttura musicale.
G.D. C. La Marini utilizza qui il modulo di una passione della tradizione orale abruzzese, l’Orazione di San Donato, che è poi quello dell’Orologio della Passione, cioè ora per ora i momenti del martirio del santo fino alla morte. Solo che invece di un martire cristiano qui abbiamo a che fare con un martire del nostro tempo, un intellettuale ucciso e costretto al silenzio (“Non può più parlare”). Ed è perfino inquietante scoprire come gli elementi narrativi dell’orazione vanno man mano a rimodellarsi sulla vicenda della morte di Pasolini. Quando dice “Le undici le volte che l’ho visto/Gli vidi in faccia la mia gioventù” non si può non pensare a Pino Pelosi; e poi le ferite, la confessione e la richiesta di perdono dalla madre. Soprattutto la quinta e la sesta strofa ci fanno capire come Giovanna arriva a coniugare la suggestione antica dell’orazione con un testo invece più mobile, aperto, moderno… Quando dice per esempio: “Ma quella notte volevo parlare/La pioggia il fango e l’auto per scappare/ Solo a morire lì vicino al mare…”, e così via.
E poi c’è la musica, che è ugualmente fondamentale. La bellezza della musica e del canto. L’impianto armonico qui è decisamente più elaborato, il modo di usare gli accordi, di accompagnarsi con la chitarra e così via. E infine la ricchezza e l’ampiezza degli intervalli, tipica del canto contadino, che trova la sua massima espressione nello svolo, quando dice “E non può più parlare… non può più parlare…”. Lo svolo che è invece un “modulo” della tradizione funebre dell’area del Salento, e che rappresenta quell’elemento forte di diversità che Giovanna Marini sta cercando nel suo modo di fare musica popolare. Uno svolo realizzato attraverso un crescendo vertiginoso di tono e di voce, fino ad assestarsi alla fine in una sorta di melisma acutissimo, nasale, micidiale, impressionante. E lo svolo è, in qualche modo, il marchio, la firma musicale di Giovanna proprio nella direzione di una musica popolare riletta in questa chiave di diversità, e quindi assolutamente non omologabile.
Dai canti popolari la Marini trova ispirazione per approfondire l’impiego della voce. In che modo?
G.D. C. Come abbiamo appena visto nel “Lamento”, Giovanna ama esagerare, cercando espressioni difficili, usando il doppio del tempo per tenere una nota, salire di un’ottava non gli basta, va oltre. Ed ecco che arriva lo svolo, con quella sua voce incredibile che continua a salire, fino a diventare puro lamento melismatico. In uno scenario dove si sentono cose sempre uguali, usare la voce come nessuno l’ha mai usata prima diventa una diversità che colpisce ed è così che si arriva a commuovere. Perché ha a che fare con il mistero di come la musica arriva a raggiungere le nostre vite, e a cambiarle. Ed è sempre sui testi friulani di Pasolini che avviene la prima prova importante, quando nel 1984, alla vigilia dei dieci anni dalla sua morte, decide di trasformare in musica la dolcezza e la giovinezza dei testi poetici friulani. E tutto questo, grazie anche collaborazione di Laura Betti, avviene in terra di Francia, prima un concerto al festival di Avignone e poi un album dal titolo semplicissimo: POUR PIER PAOLO. Un incontro che dà luogo a un incrociarsi davvero sorprendente di musica e poesia, in un continuo intrecciarsi di melodie e timbri di canto contadino da una parte, e di complicate sperimentazioni compositive, vocali e strumentali dall’altra. Ma questo, per lei, è solo l’inizio di un percorso, che continuerà a indagare, scavando nel complesso universo pasoliniano, rivivendolo a modo suo, fino a trovare la chiave in una sorta di “neo-madrigalismo” tutto affidato, appunto, alle suggestioni della voce.
La storia tra la Marini e Pasolini prosegue nel tempo. Come?
GD. C. Arriviamo al 2005, quando con “Le ceneri di Gramsci” la Marini deve fare i conti con un testo di grande impegno civile, cioè con la durezza degli endecasillabi in italiano e non più con la fluidità dei versi friulani. Siamo passati, in qualche modo, dal mito alla storia: una nuova imponente composizione per coro misto, che mette al centro il testo poetico dei sei canti dell’omonimo poemetto di Pasolini, con le immancabili aperture al canto contadino e alla “passione” popolare. Ma anche difficile da mettere in musica, come, come dicevo, e come mi ha raccontato la stessa Marini. Una fiume di poesia, dove succede di tutto, ed è difficile trovare un elemento di unità, quello che Pasolini ha trovato attraverso la poesia. E Giovanna, pian piano, rileggendo quei versi all’infinito, come si era raccomandato Pie Paolo, alla fine scopre il filo che unisce tutti e sei i canti pasoliniani: un discorso intimo e serrato di passioni represse, di contraddizioni profonde, un canto di verità in cui alla fine Pasolini si svela interamente, senza pudori, attraverso la poesia. E scopre che anche quella è una passione popolare, come quelle che si cantano nel venerdì santo, nelle processioni del Cristo morto. Ed è a partire dallo studio e l’interpretazione di quattro famose passioni popolari che riesce ad arrivare all’anima musicale dei sei canti delle “Ceneri di Gramsci”. Un’opera di straordinaria bellezza, anch’essa legata in qualche modo alla data del 2 novembre. Perché Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, a Roma, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla Scuola Popolare di Musica Popolare, dove Giovanna insegna e lavora dal 1975, l’anno cioè della morte di Pasolini. Era il 2 novembre di quell’anno orribile. Giovanna e Pier Paolo si erano visti solo qualche giorno prima. Così, per molti anni, nel giorno dei morti, la nostra musicista e i ragazzi della sua Scuola di Testaccio si recheranno, come Pasolini, sulla tomba di Antonio Gramsci a leggere insieme i primi versi delle Ceneri e a intonare il Lamento.
Però il rapporto con il Pasolini poeta in lingua friulana non è finito. Ci sono altri diversi momenti di incontro e soprattutto c’è l’ultima opera di Giovanna Marini, quella del 2015, “Io sono Pasolini”.
GD. C. Sì, è vero, è così. Prima, nel 1997, Giovanna deve affrontare e mettere in musica un altro testo pasoliniano, “I Turcs tal Friul” (I Turchi in Friuli), opera teatrale che Pasolini scrive nel ’44, ancora in dialetto friulano; e che racconta una mitica invasione dei Turchi nel Friuli nel 1499, in cui fu coinvolta la stessa città di Casarsa. Giovanna si impadronisce di tutta questa storia, e grazie a una partitura impostata sulla messa in evidenza delle sillabe sonore (solo voci e percussioni naturali), trasforma “I Turcs” in una sorta di tragedia greca contadina, con dentro vecchi canti liturgici, un coro di donne, un miserere, una cantata finale in forma di vento e tutto la strazio di un passato che ritorna, della morte, di un’adolescenza perduta, dolcissima e barbarica insieme. E poi come hai detto tu, nel 2015, a 40 anni dalla morte di Pasolini, “Io sono Pasolini”. E anche questa volta il risultato è un atto d’amore sincero e imperdibile, e insieme una discesa nelle profondità del pensiero di Pasolini e della sua poetica (sentimentale, musicale e politica). Un nuovo oratorio, un concerto e un disco, che riparte da lì, dalla grande tenerezza della stagione friulana. Ed è come se tutto ricominciasse a mettersi in moto e a vivere. Come se la voce di Pier Paolo, zittita per sempre la notte del 2 novembre 1975, ritornasse a farsi sentire e a risuonare in questo moderno oratorio parlato/cantato (interamente affidato – per la parte cantata – alle voci naturali di un coro non ben temperato), un oratorio che mette a confronto la speranza popolare e contadina del giovane Pier Paolo con l’approdo al disincantato universo consumistico degli anni Settanta (cioè l’universo dei nuovi giovani infelici delle “Lettere luterane”).
In Italia la Marini è sempre stato sinonimo di canzone impegnata, quindi tanta attenzione ai testi, e invece…?
GD. C. E invece ci si dimentica che Giovanna Marini è una grande musicista, compositrice, straordinaria cantante e chitarrista. E questo succede soprattutto in Italia. Mentre non succede, per esempio, in Francia, dove invece è amata e richiesta (anche come insegnante universitaria) proprio per essere una grande musicista, una signora delle note e della voce. In Francia adorano le sue Cantate, perché la Cantata è la forma di spettacolo-concerto che sente più vicina alla sua musica, la più intima. Una narrazione che mette insieme la parola (il racconto) e il canto, con la strumentazione spesso limitata alla sola chitarra acustica di Giovanna, suonata alla maniera dei vecchi cantastorie, declamando i suoi racconti epici di un’Italia in via di estinzione, così come i modi spesso non temperati del canto contadino. L’ultimo spettacolo in terra di Francia, è del 1995, credo, e si chiamava “Partenze (Départs in francese), ed è ancora un concerto che ci riporta a Pasolini, Pasolini 20 anni dopo. Ed è lui a riempire lo spettacolo, i suoi testi musicati in forma di madrigali per quattro voci femminili, quelle del suo formidabile Quartetto: “Quattro voci – spiega Giovanna – precise nel colpire la nota, larghe nel fondersi in un unico suono, acrobatiche nel saltare di qua e di là sulla scala diatonica e non, per ricordarci tutta la storia musicale che ci portiamo dentro”. Un disco che uscirà poi anche in Italia con il titolo di “Partenze/Cantata per Pier Paolo Pasolini”. Ricordo, come fosse ieri, che mi disse: Giandomenico, sono ormai vent’anni che Pasolini è morto, e tuttavia sembra solo ieri sera che diceva: E’ vero, siamo in un regime democratico, non si può negare. Ma questa omologazione culturale che il fascismo non era riuscito a ottenere in vent’anni, la civiltà dei consumi l’ha ottenuta in pochissimo tempo. Così siamo tutti morti e tuttavia non lo sappiamo ancora».
Si ringrazia Giandomenico Curi che ha visionato e implementato la trascrizione dell’intervista rendendo questo articolo particolarmente completo e si spera potrà essere di stimolo per chiunque volesse approfondire l’argomento con ascolti degli album di Giovanna Marini, facilmente rintracciabili sulle piattaforme musicali.