Harriet Beecher Stowe: Natale nel nuovo mondo
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Harriet Beecher Stowe: Natale nel nuovo mondo

Natale nel Nuovo Mondo della Beecher Stowe confermano, sempre che ve ne fosse la necessità, la stoffa dell’autentica narratrice di questa vituperata scrittrice.

Harriet Beecher Stowe: Natale nel nuovo mondo
Harriet Beecher Stowe
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10 Gennaio 2023 - 23.07


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di Rock Reynolds

È didascalica. È superata. È macchiettistica. Soffre di un paternalismo insopportabile. I suoi libri sono poco più di una lettura infantile: li si legge solo perché hanno contribuito ad aprire gli occhi sul tema annoso del razzismo. Tutte cose che da sempre accompagnano il giudizio sull’opera di Harriet Elizabeth Beecher Stowe (1811-1896) che, se non avesse scritto uno dei libri più importanti e controversi nella giovane storia degli Stati Uniti, probabilmente avrebbe oggi un ruolo più nobile nel suo pantheon artistico.

La capanna dello Zio Tom, infatti, pubblicato nel 1851, resta uno dei romanzi americani per eccellenza, nonostante sia stato in larga parte stroncato per l’eccessivo trasporto che ne anima le pagine, per quello che molti critici hanno considerato un quadro iper-retorico di un mondo tristissimo, quello della schiavitù, che ben altro tono e ben altra sapienza letteraria avrebbe meritato: meno melassa e più sangue e sudore, insomma. Eppure, l’autrice è stata una capostipite, una donna, per giunta bianca, che per prima, a metà dell’Ottocento, ruppe una sorta di tabù: raccontare una storia popolare mettendovi al centro uno schiavo, con le sue sofferenze di uomo, di schiavo, di schiavo di colore. Attaccarne ancor oggi una presunta superficialità macchiettistica non rende giustizia all’autrice a cui, viceversa, Abraham Lincoln riconobbe meriti indiscussi, definendola “la piccola signora che ha causato una grande guerra”.

Ma Harriet Beecher Stowe non fu solo l’autrice della discussa storia dello schiavo Tom, venduto a malincuore da parte del suo illuminato padrone. Fu un’autrice prolifica, sostenuta perennemente dalla fede intensa trasmessale dal padre, un pastore calvinista, e animata dai buoni sentimenti cristiani che non sempre – si farebbe forse prima a dire quasi mai – hanno realmente improntato i comportamenti dei Padri Pellegrini e dei loro discendenti, tra cui la stessa famiglia dell’autrice, originaria del New England, per lo meno nei confronti delle popolazioni indigene che vi incontrarono e, soprattutto, della mando d’opera di colore a costo zero strappata all’Africa e portata sulle coste americane a prezzo di indicibili sofferenze. A onor del vero, va detto che non v’è quasi famiglia bianca evangelica negli Stati Uniti che non rivendichi una discendenza più o meno diretta dai primi Coloni puritani sbarcati dalla Mayflower sulle coste del Massachusetts, nei pressi di Cape Cod, nel 1620.

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Natale nel Nuovo Mondo (Graphe.it edizioni, traduzione di Fabiana Errico, pagg 75, euro 12,90) raccoglie tre racconti (di cui due assoluti inediti per il mercato italiano) della Beecher Stowe che confermano, sempre che ve ne fosse la necessità, la stoffa dell’autentica narratrice di questa vituperata scrittrice.

I tre racconti sono accomunati dall’intento di restituire al Natale un senso alto che, in realtà, nel Nuovo Mondo non si è mai perso e che, semmai, con il passare del tempo ha solo in parte abdicato alla sua funzione originaria di celebrazione sacra, sotto i colpi implacabili di quel consumismo che proprio i calvinisti hanno alimentato per primi.

“Il primo Natale nel New England”, “Natale a Poganuc” e “La fatina buona” si leggono d’un fiato, non solo per la loro brevità. La leggerezza del tono non scade mai nel banale, malgrado la religiosità che li pervade sia intensa. Sono gli occhi dei bambini, soprattutto nel secondo e nel terzo racconto, a togliere ogni patina biecamente celebrativa e, addirittura, a esprimere qualche perplessità sulla validità di una celebrazione simbolica come il Natale. Il padre pastore di Dolly, protagonista del secondo racconto, ha le sue perplessità e non le nasconde di fronte alla figlia. “Nessuno sa quando Gesù è nato, e non c’è niente nella Bibbia che ci dica quando festeggiare il Natale.” Ma non mancano nemmeno i dubbi sulla scelta di esportarlo sulle coste verdeggianti del New England, dove la festività religiosa venne imposta come canone universale anche ai selvaggi locali. A testimonianza del fatto che, tutto sommato, appropriarsi di quelle terre in cui le popolazioni indigene scorrazzavano a loro piacimento dai confini della memoria era e resta un fatto ineluttabile, una conquista cristiana certamente mossa dalla mano invisibile dell’Altissimo. “Domani, a Dio piacendo, ci impegneremo a fare del nostro meglio, portando avanti un onesto lavoro cristiano e inizieremo a costruire case in questo nostro New England. Non saranno alla moda, ma certamente saranno decorose, ve lo garantisco, come quelle del nostro Signore Gesù Cristo il giorno di Natale… ancora una volta il Signore Dio nostro è con noi e metterà a frutto il nostro lavoro.” È una voce narrante, questa, che ci aiuta subito a inquadrare la vera essenza del popolo americano, un’essenza che la frangia evangelica più conservatrice non ha mai smesso di rivendicare: bianca, cristiana, padrona legittima del Nuovo Mondo, spinta da Dio stesso ad approdare su quei lidi che, dunque, gli appartengono a dispetto di qualsiasi altro ragionamento. In una parola, WASP.

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È una terra ancora selvaggia quella che, per lo meno nel primo racconto, fa da quinta a un Natale la cui festa serve soprattutto a rendere meno spaventosa l’avventura in quei luoghi lontani. Insomma, visto che il freddo e la neve non mancano certo nel New England e che la Mayflower sbarcò i primi uomini a metà del mese di novembre, il Natale era alle porte. 

In “Natale a Poganuc”, l’autrice ci ricorda un altro elemento che col Natale magari ci azzecca poco, ma che resta una caratteristica ancor oggi diffusa in varie zone degli USA: la convinzione nella bontà della gente del luogo, “troppo” cristiana per avere cattive intenzioni. “A quei tempi, semplici e innocenti, nei villaggi del New England, nessuno si preoccupava di chiudere a chiave la porta, di notte. Non c’erano né ladri né vagabondi…” Harriet Beecher Stowe non poteva certo immaginare che, a distanza di circa un secolo e mezzo, in alcune zone fortunate del paese la situazione non sarebbe cambiata. Ovviamente, poter lasciare la porta aperta per andare alla messa di mezzanotte a  bordo di una slitta trainata da una coppia di cavalli aiuta a creare l’atmosfera giusta.

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Fabiana Errico, curatrice dell’opera, ci restituisce in italiano lo stile di Harriet Beecher Stowe nel modo migliore. Anzi, nell’unico modo possibile: senza inventarsi nulla, senza calcare la mano, scegliendo saggiamente di fare un passo indietro e di lasciar parlare l’autrice, filtrandone la voce attraverso un italiano sapiente e mai invadente. La sua prefazione, semplice quanto puntuale, si sofferma sulla religiosità dell’autrice che, nonostante la famiglia le avesse dato un imprinting calvinista ineluttabile – o, chissà, anche grazie a tali valori – si fece promotrice di iniziative per l’emancipazione femminile e l’abolizione della schiavitù. Non va dimenticato, infatti, che la pubblicazione de La capanna dello Zio Tom avvenne nel 1851, dieci anni prima dello scoppio della guerra civile che all’istituto della schiavitù avrebbe posto fine per sempre.

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