Febbraio 1933, l'avvento del nazismo e l’inizio della fine anche per l’arte
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Febbraio 1933, l'avvento del nazismo e l’inizio della fine anche per l’arte

È una sorta di monito torvo per chi sottovaluta la portata di certi slanci populisti e dà per scontata la capacità della democrazia di rigenerarsi.

Febbraio 1933, l'avvento del nazismo e l’inizio della fine anche per l’arte
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4 Febbraio 2023 - 10.33


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di Rock Reynolds

“Per distruggere la democrazia, agli antidemocratici è bastato poco più di un mese. Chi fosse partito alla fine di gennaio lasciando uno Stato di diritto, si sarebbe ritrovato al ritorno, quattro settimane dopo, in una dittatura.”

Sono queste le parole con cui, di fatto, si conclude Febbraio 1933 – L’inverno della democrazia (Marsilio Editori, traduzione di Isabella Amico di Meane e Giovanna Targia, pagg 303, euro 19) di Uwe Wittstock. In realtà, sono lo prime frasi della postfazione, ma poco importa: con lucida freddezza, l’autore chiude il cerchio. È una sorta di monito torvo per chi sottovaluta la portata di certi slanci populisti e dà per scontata la capacità della democrazia di rigenerarsi. E il controllo della creatività è sempre stato una delle ossessioni primarie di ciascun regime. In fondo, bastano poche nubi per scatenare una bufera.

Di nubi se ne sono certamente addensate tante sul cielo della Germania dopo la fine ingloriosa della Grande Guerra. Il trattato di Versailles ha imposto un gravoso dazio a un paese sempre più schiacciato sotto il peso di una gravissima crisi economica e mai domo nei suoi slanci imperialistici, umiliato nella coscienza nazionale e incapace di accettare un’inedita subalternità culturale nei confronti delle potenze vincitrici che, almeno in questo particolare periodo storico, non possono vantare un pantheon di intellettuali, scrittori, teatranti e artisti a tutto tondo quale quello tedesco.

Abbandonare un paese dalla seppur traballante democrazia come la Germania e farvi ritorno in pieno oscurantismo nazionalsocialista è quanto accade, per esempio, a Lion Feuchtwanger, romanziera di successo della Repubblica di Weimar partito per una serie di conferenze negli USA e tornato a Berlino con un nuovo scenario politico. Come molti altri colleghi non esattamente allineati col pensiero nazista o, addirittura, rei di aver fatto da agitatori anti-Hitler prima che quest’ultimo salisse al potere, le strade sono obbligate: l’esilio volontario, l’espulsione, la fuga oppure il pericolo di vessazioni morali, incarcerazione, tortura e, addirittura, morte. Feuchtwanger deve abbandonare frettolosamente il paese e finisce per stabilirsi non lontano da Marsilia, in una casa in cui ospiterà altri transfughi illustri tedeschi: Joseph Roth, Bertold Brecht, Stefan Zweig, Heinrich e Thomas Mann, per citarne solo alcuni.

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L’atmosfera che Uwe Wittstock ricostruisce mirabilmente è quella di un paese in fortissimo fermento culturale, a dispetto delle gravi ristrettezze a cui la maggior parte della popolazione è soggetta, un paese in cui sta per spiccare il volo una generazione di talenti letterari come non se ne vedono da secoli. La cultura mitteleuropea, soprattutto a Berlino, vive un momento di raro tripudio, con figure leggendarie come i fratelli Heinrich e Thomas Mann (quest’ultimo insignito del Nobel per la letteratura nel 1929, a cinque anni dalla pubblicazione del suo romanzo La montagna incantata), Erich Maria Remarque, Berhold Brecht, Kurt Weill, Alfred Döblin e Therese Giehse. L’entusiasmo per la straordinaria profondità e il forte eclettismo dei pensatori tedeschi di questo periodo, che in larghissima parte si sono accorti quasi subito della pericolosità delle nuove idee nazionalsocialiste, trova un’illuminante collocazione nel primo capitolo di Febbraio 1933 – L’inverno della democrazia, scandito come l’intera opera dal susseguirsi di quei giorni fatidici, da sabato 28 gennaio a mercoledì 15 febbraio, quando l’orologio della libertà si inceppa definitivamente. Quel primo capitolo, dal titolo “L’ultimo ballo della repubblica”, racconta di come ancora nazionalsocialisti e oppositori politici, boia e vittime, per qualche fugace istante possono ancora stare insieme, magari in una festa danzante per debosciati in cui “si balla e si beve come gli anni passati, ma aleggia la sgradevole sensazione che qualcosa di imprevedibile incomba sul paese”. L’allegria è “insolitamente artefatta”.

I semi della perversione antidemocratica sono quasi sempre lampanti agli occhi degli intellettuali; molto più sfumate sono le loro caratteristiche per il popolo, che facilmente si lascia infinocchiare da promesse roboanti e, solitamente, inattuabili. Eppure, persino nella geniale comunità creativa di quella Germania, c’è chi pensa – o, forse, spera – che quei pupazzi in divisa militare dalla ridicola propensione alla pantomima abbiano vita breve. Lo pensa il vecchio pittore impressionista di fama internazionale, Max Liebermann, conservatore e borghese ma, soprattutto, ebreo, che non può fare “a meno di notare come, anche negli ambienti bene… stia dilagando un antisemitismo sempre più aggressivo”.

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I segnali preoccupanti si intensificano anche nel mondo tutto sommato dorato della creatività. Con la nomina dello scrittore Hans Johst, ammiratore di Hitler e amico di Himmler, a direttore degli Staatliche Shausspiele, Klaus Mann, figlio di Thomas, rimane scioccato, ben sapendo quanto potere sia connesso a tale carica. La Germania che Hitler sta stringendo sempre più nella sua morsa soffocante è fondata su concetti enfatici come “venerazione, pulizia, popolo, nazione”, ben lontani dagli aneliti assai più elevati della comunità artistica del paese. Eppure, dopo la débâcle della Grande Guerra, anche Thomas Mann si è fatto contagiare dalla medesima ebbrezza nazionalista, al punto da porsi in contrasto netto col fratello, con il quale riallaccerà i rapporti dopo aver compreso la falsità delle promesse dei nazionalsocialisti e la loro propensione alla violenza. Suo fratello Heinrich, peraltro, è uno dei primi intellettuali a capire che l’aria che tira a Berlino e in tutta la Germania per chi, come lui, non ha mai fatto mistero di un’avversione profonda per le nuove idee dominanti, è sempre più irrespirabile. A convincerlo a fare fagotto in fretta e furia, però, e a salire sul primo treno disponibile alla volta della Francia è l’amico scrittore Wilhelm Herzog: Heinrich Mann è ancora convinto che Hitler e i suoi sodali siano destinati a scomparire rapidamente dalla scena. Eppure, il ministro della cultura ha fatto trapelare che i fratelli Mann, Döblin, Werfel, Fulda e molti altri non hanno “il diritto di essere accostati in veste ufficiale al concetto tedesco di letteratura”. Una condanna inappellabile, insomma.

C’è persino chi avrebbe quasi tutte le carte in regola per assurgere al ruolo di cantore del regime, come Oskar Maria Graf, pregno dei giusti valori popolari bavaresi e appassionato di figure semplici e al tempo stesso dotate di cuore tenero – e, in questo, non ci sarebbe nulla di male per la propaganda nazista – ma che non si lasciano imbrigliare da nessuno e, di certo, non amano “stare sull’attenti e battere i tacchi”.

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Anche per chi aspiri a un teatro libero, non di regime, le cose si mettono malissimo: Kurt Weill, l’autore della celebre musica de L’opera da tre soldi, fugge a Parigi. Berthold Brecht, che quell’opera teatrale l’ha scritta, ripara rocambolescamente a Praga e poi a Vienna.

“La dittatura ha inizio” il 28 febbraio, con l’approvazione del Decreto contro il tradimento del popolo tedesco e le attività sovversive, una legge che erode le libertà individuali e amplia le facoltà discrezionali di chi dovrà stabilire di volta in volta la liceità di certe opere. L’arbitrio delle autorità sarà all’ordine del giorno.

È così che si diffonde l’usanza di mettere al rogo i libri inadatti, come se, bruciandone le pagine, se ne possa estirpare lo spirito. È la fine che faranno le opere di Erich Maria Remarque, autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale, che nel frattempo ha riparato ad Ascona, in Svizzera, dove possiede una villa. In quei roghi, ci sono addirittura “banditori” che accompagnano la distruzione dei libri all’indice con slogan prestabiliti: “Contro il tradimento letterario ai danni dei soldati della guerra mondiale, per l’educazione del popolo nello spirito della militanza! Consegno alle fiamme gli scritti di Erich Maria Remarque”.

Al termine di ogni capitolo, l’analisi storica espressa attraverso un linguaggio quasi romanzesco riacquista un tono asciutto, da cronaca giornalistica, fornendo la conta di arresti, morti e feriti, un mero, crescente antipasto di violenza e sopraffazione che sta per far precipitare la culla della cultura europea in un abisso senza fondo.

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