di Rock Reynolds
È il ventre molle dell’America, quello che si nutre di teorie complottiste partorite da menti malate in ambienti in cui i versetti della Bibbia vanno a braccetto con i grandi potentati economici. È lo stesso humus viziato in cui mette radici il peggio dell’isolazionismo culturale del paese, favorendo la riproposizione acritica e, va detto, ormai pateticamente antistorica, dell’assioma, «Siamo il paese dell’uomo libero», uno slogan totalmente disancorato dalla realtà geopolitica del mondo contemporaneo e pervicacemente abbarbicato a valori in cui solo chi lo pronuncia crede. È più di metà del paese, considerato che la convinzione nella preminenza messianica della bandiera a stelle e strisce nel firmamento internazionale è trasversale. È l’“America First”, che non è solo una trovata elettorale trumpiana.
È l’America di chi rivendica la superiorità del proprio modello socioeconomico rispetto a qualsiasi altro, pur non conoscendone altri, nella maggior parte dei casi. È l’America di chi pensa che il governo ha sempre ragione in politica estera e va spesso osteggiato dentro i confini nazionali. È il paese dei “bravi ragazzi, un po’ arrabbiati”, come ebbe a dire in un paio di occasioni lo stesso Donald Trump per giustificare intemperanze poi sfociate in vere e proprie violenze di piazza, come l’assalto al Campidoglio. In fondo, basterebbe dire che è l’America in cui Donald Trump, malgrado tutto, rischia nuovamente di ritrovarsi inquilino della Casa Bianca nel novembre del 2024.
È un paese in cui, a forza di gridare al complotto, qualcuno ci crede e decide di sostituirsi a una giustizia che, secondo i più convinti, avrebbe abdicato al suo ruolo di garante dei buoni valori cristiani. Avete mai sentito parlare di QAnon, Three Percenters, Proud Boys?
Ne La tempesta è qui (Orville Press, traduzione di Francesco Pacifico, pagg 446, euro 22) ne sentirete parlare e come. L’autore, il giornalista Luke Mogelson, raccoglie e sistematizza una serie di riflessioni sulla condizione attuale del suo paese alla luce della nascita del movimento “Black Lives Matter”, da una parte – con le sue rivendicazioni di pari diritti per le minoranze, soprattutto nel loro rapporto con le forze di polizia – e della proliferazione di gruppi di cittadini bianchi che lanciano strali contro la modernità, strepitano contro il globalismo e professano una violenta intolleranza nei confronti di una presunta limitazione delle libertà individuali, dall’altra.
Il lockdown anche da noi ha evidenziato parecchi fili scoperti che ammantano l’intolleranza di una parte della cittadinanza per le limitazioni anti-Covid e l’atteggiamento antiscientifico di molti di un pericoloso sentimento antisistema non dissimile da quello della destra evangelica americana. Ma, come spesso accade, negli USA tutto è più grande, magnificato dalla lente del grande business. La tempesta è qui è un libro favoloso: lucido, illuminante, preoccupante. Se, dopo averlo letto, non vi tremeranno un po’ le gambe al pensiero che gli Stati Uniti oggi più che mai sono il perno degli equilibri mondiali e che la loro classe politica rappresenta per circa il 50% un ammasso di buzzurri che non si rendono conto di essere tali, ma che non si offenderebbero più di tanto se qualcuno gli dicesse che li sono, a patto che nel loro atteggiamento venga riconosciuta l’essenza della vera America, forse vi sarà sfuggito qualcosa. Perché, fin dalle prime pagine, il quadro è sconfortante. Il che non significa che Mogelson sia automaticamente convinto che non vi siano nel DNA stesso del paese gli ingredienti per estromettere certe distorsioni dall’arena politica. Da osservatore esterno, sono decisamente più pessimista.
Tanto per cominciare, l’idea stessa della fondazione del paese come paradiso in terra dell’uomo libero, come Eden voluto da Dio, inquieta. C’è una fortissima assonanza tra le pretese degli ebrei di essere il popolo eletto e le rivendicazioni degli evangelici americani di vivere nella Terra Promessa. E la dicotomia è quasi imbarazzante, considerato l’appoggio quasi incondizionato degli Stati Uniti per Israele, da una parte, e le costanti degli evangelici stessi a una presunta lobby ebraica che intenderebbe assumere il controllo del mondo, dall’altra. Come scrive Mogelson, «La teologia della Christian Identity sosteneva che gli europei fossero i veri discendenti delle tribù perdute d’Israele, gli ebrei la progenie diabolica di Eva e del serpente e tutti i non bianchi “baluba”».
E una delle caratteristiche che rendono particolarmente americana quella convinzione è la tendenza a rivendicarla armi alla mano. Sappiamo bene che le armi sono un’ossessione che nessun presidente, nemmeno i più progressisti, è mai riuscito a spegnere. Semmai, negli ultimi decenni, la tendenza ad armarsi sancita dal secondo emendamento della Costituzione è cresciuta esponenzialmente, al punto che si è registrato un incremento fortissimo nella vendita di pistole e fucili quando è iniziato il lockdown: insomma, visto che saremo costretti a stare in casa, deve aver pensato il sedicente giustiziere della notte della porta accanto, tanto vale prepararsi a una strenua difesa. Mogelson cita casi che mi fanno riandare con la mente a una fiera delle armi che visitai nel 2008 nel Wyoming, poco dopo la prima vittoria alle presidenziali di Barack Obama. Un tizio, a cui non avrei dato in mano nemmeno un fucile a elastico, strepitò che, in Germania, Hitler era salito al potere quando erano state requisite le armi circolanti tra i cittadini ed erano state imposte limitazioni alle libertà individuali. Un po’ come certe sciocchezze circolate proprio con il lockdown, una narrazione artatamente sostenuta da Donald Trump tra il serio e il faceto. Peccato che i suoi seguaci non facciano ridere per nulla.
Malgrado i temi trattati non lascino particolare spazio alla leggerezza, non mancano siparietti che finisco involontariamente per strappare un sorriso. Come la storia di Karl Manke, il barbiere del Michigan divenuto una sorta di maitre a penser per aver trasformato il suo negozietto in un salotto per evangelici, millenaristi e fascistoidi in cerca di un’arena in cui sproloquiare di questo o di quel complotto e, soprattutto, in cui non sentirsi in obbligo di portare la mascherina. D’accordo, di situazioni analoghe se ne sono viste anche da noi, ma la virulenza verbale e, talvolta, fisica di determinate reazioni scomposte non ha mai raggiunto certe vette. L’autore, giusto perché rappresentava una testata “di sinistra” e indossava la mascherina è stato apostrofato da una donna dei Proud Boys di essere una checca schifosa comunista.
Un giro anche solo turistico nella sterminata provincia può aprire gli occhi. Ci sono luoghi in cui si ha la sensazione che il padrone di casa non dia aria all’ambiente da decenni e altri in cui quello stesso padrone di casa, incalzato su certi temi, non sappia fare meglio che riproporre lo stesso, immancabile ritornello: «Qui le cose vanno così da sempre. E vanno benissimo. Se non vi piacciono, siete liberi di andare da un’altra parte». Insomma, la curiosità per il mondo non pare nella lista delle qualità più ambite. Viene quasi da pensare che la mancanza di conoscenza e di cultura, se non una vera e propria ignoranza gretta, sia sbandierata con una punta d’orgoglio, mettendo sul piatto opposto della bilancia la falsità e l’inutilità di un’erudizione che, sfuggendo al rigido controllo evangelico, non può che essere foriera di disastri. Della serie, niente nuove, buone nuove.
Eppure, non è che manchino sacche di sottosviluppo da quarto mondo. Attenzione, però, a pronunciare la parola “socialismo”, una sorta di peccato mortale. Certo, il risultato di un’analisi può dipendere dal tipo di lente utilizzata per compierla. Mogelson lo sa bene: «Quando i sostenitori della quarantena rimproveravano agli antilockdown di sottrarsi ai sacrifici in un momento di crisi nazionale, in realtà li stavano accusando di un reato più generale, lo scarso patriottismo». Ma gli scettici la vedevano diversamente e «rifiutavano la premessa che la nazione fosse in crisi… ciò che il lockdown gli sottraeva non era un sacrificio: era un furto». E immagino quanto stizziti fossero quegli scettici, una categoria che si sovrappone quasi alla perfezione con la frangia più ostentatamente patriottica del paese, quelli che, insomma, usano la “Old Glory”, la bandiera a stelle e strisce, come tovaglia.
Partendo da una positiva riflessione sul primo grande movimento di protesta dai tempi delle marce per i diritti civili negli anni Sessanta, ovvero quel Black Lives Matter nato in reazione all’omicidio dell’afroamericano George Floyd da parte della polizia, il libro di Mogelson finisce per concentrarsi maggiormente su tutti i movimenti dell’estremismo della destra evangelica, sia quelli tradizionali che quelli sorti grazie all’incitamento aperto di Donald Trump e di politici più intimamente conservatori di lui, le cui posizioni tutti sanno che sono esclusivamente di comodo.
È inquietante scoprire come una nutritissima frangia di poveracci bianchi – il cui unico vantaggio sulla controparte nera è, per l’appunto, non essere neri e non sentirsi chiamare “negri” – sia davvero convinta che il paese sia loro di diritto. I popoli precolombiani, grazie a una scientifica operazione di cancellazione storica, non esistono, perché quello dei discendenti dei Padri Pellegrini era il «destino manifesto della razza anglosassone». Eppure, quella frangia racchiude gli stessi cittadini che si sono fatti soggiogare dalla narrazione della “grande sostituzione”, la teoria secondo cui i bianchi cristiani rischierebbero di essere rimpiazzati da minoranze etniche trasformatesi in maggioranza. Il rischio, effettivamente, esiste. Ma non per il diabolico disegno di una cupola di cattivoni.
Sono tutte paure che fanno il paio con quella del complotto ordito da Fauci e chissà chi altri, con il timore dell’anticristo – per un certo periodo, tale “onore” è spettato a Obama – e con il fastidio plateale per quella che gli evangelici considerano la menzogna peggiore: il riscaldamento globale. È una vera e propria ossessione evangelica negarne i principi scientifici. Una spiegazione razionale di un atteggiamento irrazionale anche in questo caso esiste. Come dice Mogelson, «Ammettere che l’industria americana stia rendendo inabitabile il pianeta equivarrebbe a contraddire l’idea stessa, fondamentale, di un patto fra bianchi e Dio».
Con La tempesta è qui Mogelson ci regala un saggio magistrale e di agevole lettura.
La scelta va ascritta a merito di Orville Press, un nuovo progetto editoriale ideato da Matteo Cotignola che ha trovato casa presso la Garzanti e il Gruppo Mauri Spagnol.