di Manuela Ballo
Ci risiamo. Ogni qualvolta nascono dei dubbi sull’uso di alcune parole o di problemi legati a scelte contingenti, sia nel linguaggio comune sia in quello giuridico, si chiama in causa la Crusca perché si sa che quest’Accademia è la “Magistra lingua”. Anche l’ultimo pronunciamento va in questa direzione: sollecitata dalle domande poste dal Comitato pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, la Crusca ha dato risposte precise e che, probabilmente, saranno oggetto di confronti e discussioni.
Affermazioni nette sono arrivate, ad esempio, sull’uso di alcune forme espressive che si vanno sempre più affermando: “ Bando ad asterischi e schwa, no all’articolo davanti al nome (la Schlein e la Meloni) e no alle reduplicazioni retoriche (figlie- figli) “.
La Crusca, dopo approfondite discussioni in seno al proprio consiglio direttivo, ha stabilito che, anche nella scrittura degli atti giudiziari, si potranno usare espressioni come la pubblica ministera, la presidente, la giudice, la questora, la magistrata, evitando anche di aggiungere come desinenze asterischi e schwa che non hanno alcuna corrispondenza col linguaggio parlato.
In modo particolare è netto il giudizio su l’uso della Schwa che fa parte dell’alfabetico fonetico internazionale e rappresenta la vocale centrale propria di gran parte delle lingue che non è presente però in italiano. Due le motivazioni che stanno, per la Crusca. Dietro questo parere. La prima: “La lingua è prima di tutto parlata, anzi il parlato gode di una priorità agli occhi di molti linguisti, e a esso la scrittura deve corrispondere il più possibile”.
La seconda: “La lingua giuridica non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto. In una lingua come l’italiano, che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti continua a essere il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza – precisa la Crusca – di quello che effettivamente è un modo di includere e non di prevaricare”.
Tornando poi a riflettere sull’uso dell’articolo determinativo davanti ai cognomi delle donne, così come degli uomini, l’Accademia ammette che “ l’opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto, ma per garantire un’informazione completa, specie quando si tratta di nomi poco noti, sarà sufficiente aggiungere il nome al cognome o aggiungere eventualmente la qualifica”.
Tutte le volte che temi di questa natura sono affrontati nascono discussioni e confronti. Per esempio: l’attuale Presidente del Consiglio ha imposto l’uso del maschile per la sua carica o penso alla decisione di farsi chiamare Rettora da parte della prima donna eletta in questa carica. Infine, è utile ricordare che la scrittrice Michela Murgia fa grande ricorso all’uso della schwa sostenendone la giustezza sia per una reale scelta della parità dei generi sia per un’attenzione dovuta alle innovazioni da apportare alla lingua.
Anche questa volta succederà la stessa cosa? Intanto tasto il polso a due persone che sono vicine a questo giornale.
Molto chiara la posizione che esprime la Professoressa Gabriella Piccinni: “In genere credo, quasi ciecamente, a ciò che suggerisce La Crusca. Lo faccio perché noto che in genere assume posizioni equilibrate non imponendo modi di scrivere o di parlare, accompagnando l’evoluzione della lingua e della società, tutelandone la specificità e il rigore. L’aspetto più rilevante che noto in questa nuova presa di posizione è la femminilizzazione dei nomi dei ruoli e dei mestieri. Da medievista non mi fa, invece, molto effetto l’uso di “tanti e tante”, cioè quello di una declinazione doppia, sia al maschile sia al femminile. Questa formulazione è possibile rintracciarla, appunto, anche in molti documenti del nostro passato. Per quanto riguarda l’uso dell’articolo davanti a nomi propri e cognomi, io ho la sensibilità gergale di chi è vissuto e vive in Toscana per cui mi è naturale, specie parlando, di metterli. Mi sovviene ” io son la Pia” del grande Dante. Ma una cosa è il gergo e un’altra cosa, il linguaggio scritto, specie se riferito a documenti legali”.
Su alcuni punti diverge da questa posizione una redattrice del nostro giornale, Marialaura Baldino: “Sono d’accordo per il bando all’articolo davanti al nome, una stortura grammaticale non necessaria. Per quanto riguarda il no allo sdoppiamento del soggetto e all’utilizzo del plurale maschile non marcato, che rilevano essere più inclusivo, ho dei dubbi. Se il genere utilizzato per racchiudere qualsiasi genere è quello maschile come fa a essere più inclusivo?
Che poi vorrei proprio mi fosse spiegato questo concetto di “maschile non marcato”, perché sembra essere questa la vera stortura linguistica e non l’utilizzo dell’asterisco o della schwa. Mi chiedo, se dovesse esserci un soggetto giuridico che non s’identifica nel genere attribuitogli dalla nascita, o che non accetta lo schema di genere binario, perché dovremmo identificarlo con un pronome che non gli appartiene?
Capisco poi il voler rimarcare l’uso della declinazione femminile dei nomi di alcune professioni, e menomale l’hanno fatto. Ma siamo talmente indietro tanto da aver bisogno di questa nota dell’Accademia per indicarci semplicemente di dover applicare la grammatica italiana”.
Entrambi i pareri ci rimandano, come avevo previsto, a posizioni articolate e solo in parte divergenti. Essendo fuori discussione l’autorevolezza della Crusca fa bene la Professoressa Gabriella Piccinni a ricordarcelo. Sia lei che Marialaura Baldino concordano nel ritenere giusta la decisione di rendere al femminile i nomi delle molte professioni e dei molti ruoli. La discussione rimanda, invece, a pareri differenti sull’uso generalizzato degli asterischi e della Schwa. Io su quest’ultimo punto la penso un po’ diversamente da Marialaura. Che il dibattitto abbia inizio e che altre voci si esprimano su questa rilevante nota della Crusca.